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sabato 26 dicembre 2009

TAC: CORPI, LUCI, SUONI


TAC: torce/anatomiche/computerizzate
Mostra d'arte contemporanea di Mariagrazia Merola.
28|12
22|00
Thermopolium wine bar Gioi|SA


Nel corso della storia dell'uomo, il corpo ha avuto un ruolo decisivo e peculiare nell'indagine autoreferenziale ed auto-riflessiva che ogni cultura compie su se stessa. Il prodotto artistico-intellettuale che ne deriva può essere classificato in due grossi ceppi: da una parte culture che, sviluppatesi in momenti di forte attenzione alla sfera fisica e sensoriale, legata all'egemonia/vocazione materialistica e immanente, hanno mostrato se stesse col tramite di linguaggi artistici volti all'esaltazione della materia e dei sensi, linguaggi che hanno di volta in volta esaltato la virilità, invocato le forze della natura, esorcizzato l'instabilità legata al flusso delle stagioni, del clima, ecc.; dall'altra culture che, sviluppatesi nei momenti di involuzione della sfera materialistica -momenti che occupano una parte massiccia della storia del mondo occidentale- legati alla proiezione in una sfera altra, alla costruzione di una sovrastruttura spirituale, idealistica, fortemente etica, implicano lo svilimento e la negazione del corpo, additano alla carne come peccato, e inducono, nei sempre numerosi ortodossi, al desiderio del dolore e all'umiliazione fisica.

Il corpo umiliato, represso, censurato, ma anche il corpo desiderato, spiato, svelato.

Corpo/riflesso, ora idealizzato nelle carni di una madonna, ora svilito dal martirio di un santo, quando definito dalle viscere delle fame e della malattia, quando serializzato nella mischia delle battaglie... fonte di ispirazione e metafora dell'uomo stesso, corpo/segno/matrice fa carriera e acquista una posizione manageriale sia nella sfera privata, che nella sfera pubblica: se il rapporto con il corpo è un rapporto di disambiguazione della sfera psicologica dell'individuo o del gruppo (masochismo, sadismo, castrazione, violazione, bulimia, anoressia, culturismo, travestitismo, ecc.) o di un'epoca, quali strumenti, quali segni, quali percorsi tracciare sul corpo contemporaneo?
Il corpo contemporaneo trasfigurato in immagine è un corpo di negazione di senso, un corpo “ansioso”, “creato”, plasmato da una ribellione al senso comune; le vie catodiche affollate di corpi/enigmi da decifrare; vie affollate dalla ricerca di un sempre più massiccio intervento sul proprio corpo, un intervento che corrisponde ad un'auto-trasfigurazione, o, all'opposto, ad un'ossessiva ricerca di omologazione.
Quale subscriptio attribuire al corpo/segno che si mostra muto, indefinibile?
Recuperare un contatto carnale, ricercare un trait d'union tra uomo e donna, donna e natura, sesso e amore, pubblico e privato (antitesi inasprite e diventate insanabili nella guerra dei generi dell'epoca dei bipolarismi), diventa urgente e possibile solo a partire da una lucida analisi, da una plastica consapevolezza, da una sintetica rivisitazione della propria epoca, delle sue viscere, delle sue ossa, dei muscoli, luci e ombre, sottoposte alla impietosa radiografia e alla schietta retroilluminazione; insegne luminose che, in questo caso, non hanno nulla da vendere, semmai da suggerire, insieme alle argute intuizioni dello spettatore, da sussurrare quanto c'è di straordinario nei colori e nelle forme delle nostre esistenze, complicità, diversità e tristezze.

giovedì 10 dicembre 2009

Il mestiere del cinema e il cinema di mestiere.



Gli abbracci spezzati
di Pedro Almodovar, Spagna 2009


Storie tra loro apparentemente inconciliabili agli occhi dello spettatore, spezzoni, frammenti che presagiscono un contatto, sesso, amore, segreti sepolti...
Mateo, regista di successo incontra un'aspirante attrice, Lena, moglie di uno squalo della finanza, Ernesto Martel, il quale decide di produrre il film di Mateo in cui sua moglie avrà il ruolo di protagonista, incaricando inoltre il figlio Ernesto, aspirante regista, di girare un documentario sul set, dando sfogo alla propria ossessione per Lena.
Difficile stabilire la natura di questo film e la qualità della fattura, difficile orientarsi fra la tentazione (sensazione) del piacevole estetico-narrativo, dei colori, degli attori, della storia ben congegnata, magistralmente mostrata seppur dietro il velo dell'ordo artificialis; difficile accontentare le evidenti aspirazioni intellettualistiche dell'autore, cedendo al fascino della metafora sul cinema.
Il film riflette su se stesso, entrando nei meccanismi di produzione del film stesso, ed il film nel film contiene un'analisi ossessiva sul suo farsi catturata dalla telecamera di Ernesto, un personaggio-chiave che fa da collante tra i due mondi spazio-temporali, che ne chiarisce la natura tragica, esprime anche il punto di vista più lucido (documentaristico) sulla vicenda, che nell'intenzione dell'autore si pone come metafora della sua stessa vicenda autoriale, un flashback di natura estetica, ma anche una sottolineatura delle proprie ossessioni poetiche. Dunque la narrazione è costruita in modo apparentemente «di significato» ma realmente formalistico, quasi schematico: due uomini, uno cieco (letteralmente e metaforicamente), l'altro sordo (Ernesto ha bisogno di un'interprete per sapere cosa accade tra Lena e Mateo, nonostante abbia tutto sotto gli occhi), vengono utilizzati come reagenti con due donne, l'una amata e amante del protagonista, l'altra innamorata del protagonista e custode della memoria della sua storia; infine due ragazzi/figli, uno rifiutato l'altro ignorato.
Questi personaggi sono tali, o come l'autore vorrebbe far credere fantasmi del mestiere del cinema (Ernesto metafora della produzione sorda alle aspirazioni artistiche degli autori, Mateo cieco alle esigenze finali del cinema e della produzione)?
Burattinaio di questi esperimenti e combinazioni è Almodovar, che in epilogo ammette di non aver fatto altro che rimontare pezzi della sua carriera, frammenti della sua storia, come per riordinarla: è qui dunque il più massiccio aspetto formalistico del film, l'utilizzo del montaggio come tecnica manieristica, esposto come mezzo e come scopo tanto più che mediato da una spinta autoriflessiva.
Spezzoni, oggetti filmici spezzati e rimontati come a costruire la propria metafisica, citazioni e autocitazioni, Donne sull'orlo di una crisi di nervi e Viaggio in Italia, poste lì più per un'esigenza formalistica che per una coerenza interna all'opera; il film appare agire per accumulazione, ma l'abbraccio cervellotico-pirandelliano che l'autore tenta di stabilire tra sé, lo spettatore e la sua opera rimane spezzato, appagando, suo malgrado, l'aspettativa estetico-emozionale dello spettatore.

martedì 8 dicembre 2009

FUORI TRACCIA

stop pinkification


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Esco per la prima volta fuori traccia, tradisco la linea per dare voce ad una campagna di boicottaggio made in uk, un respiro esalato dal corpo comatoso della cultura femminista internazionale: nel mirino uno dei tanti stereotipi sul sesso femminile, il colore rosa.
Partecipo alla diffusione della campagna non tanto per il suo aspetto "curioso" quanto per un'esigenza di sostegno e condivisione dell'idea sostanziale che sottende all'iniziativa, della necessità di dare maggiore attenzione alla "crisi", all'involuzione della coscienza femminista a livello internazionale, anche attraverso aspetti apparentemente banali della questione. Il colore rosa in quanto portavoce di tutta una serie di valori, di delicatezza, di fragilità, diventa qui l'espediente per riaprire il dibattito sulla situazione culturale e sulla necessità di rivedere i criteri educativi utilizzati dalla società e dalle famiglie.


martedì 10 novembre 2009

L'altra faccia del Rinascimento

...e ridendo l'uccise
di Florestano Vancini
Italia 2005


...E ridendo l'uccise, ultima fatica, testamento di Florestano Vancini (morto a Roma nel 2008) è un film eccellente che pone un sigillo definitivo al carattere e alla storia dell'autore e della sua opera: l'interesse per la storia, l'amore per la sua città, Ferrara, la vocazione didattica, la riscoperta e la diffusione della cultura e dell'identità italiana, caratterizzato da una minuziosa ricerca storica - ambientato a Ferrara all'inizio del 500 - costruita sui dettagli, e potenziata dalla traspirante passione dell'autore per la materia trattata; la definizione dell'ambiente sociale e culturale è tutt'altro che retorica, e non prevalentemente estetica come spesso avviene nei film di costume, ma si alimenta della straordinaria cultura dell'autore e dei suoi collaboratori: il film è una perla di riflessi, arte, musica (Ennio Morricone), letteratura (in particolare riferimenti ed estratti da Ariosto, Matteo Bandello, Antonio Cammelli), linguaggio, costumi, società.
Tutto questo contribuisce a fare di ...E ridendo l'uccise uno dei film più sottovalutati del cinema italiano degli ultimi anni, almeno in patria, dove il film è stato proiettato da uno o due cinema al massimo, questo dopo essere stato realizzato con ingenti risorse, anche pubbliche; non così all'estero dove ha ottenuto un grande successo di critica e pubblico.
La pellicola procede sul filo delle vicende della corte ferrarese degli Este, e delle lotte intestine per il potere tra i quattro figli di Ercole in seguito alla sua morte; sulla materia ufficiale del film si insinuano molteplici fattori che contribuiscono a generare sullo spettatore una visione d'insieme sul microcosmo rappresentato, in un continuo scambio di battute tra la corte e il popolo, in un continuo passaggio di ambientazione, di registri linguistici, scambio costruito appunto come discorso dialettico con tanto di arbitro: il buffone Moschino (un bravissimo Manlio Dovì), coinvolto suo malgrado nei tentativi di conquista del potere da parte dei due congiuranti Giulio (figlio illegittimo di Ercole) e Ferrante ai danni del duca Alfonso (un libertino, assoggettato al forte carisma della moglie Lucrezia Borgia) e del futuro Cardinale Ippolito.
Straordinaio l'epigolo del film, anche in questo caso frutto dell'ispirazione letteraria di Vancini, tratto da una novella del Bandello, autore di numerosi scritti in cui si descrivono usi e scherzi utilizzati dai buffoni per intrattenre i loro padroni. E su questi versi si chiude il film:

Scherzò con lui la morte,
nel transito con lui un pezzo rise,
di poi scherzando e ridendo l'uccise.

da In morte di un buffone di Antonio Cammelli detto "il Pistoia".


Ritroviamo anche in questo capitolo della filmografia vanciniana la capacità di svelare il volto nascosto della storia e di rileggere nell'ufficialità della storia dei potenti (delle corti, degli eroi) i segni marcati e censurati della storia del popolo, degli umili; di abbassare al livello della realtà quanto della storia passata sia stato sublimato o idealizzato.
Così Vancini smascherava il Risorgimento in Bronte, denunciava gli ignavi in La lunga notte del '43, rileggeva lucidamente l'episodio dell'uccisione di Matteotti in Il delitto Matteotti, sempre toccando i nervi scoperti della storia d'Italia, che ancora una volta rimane omertosa.
Da vedere, recuperare, diffondere.


martedì 29 settembre 2009

artecinema




Artecinema
14° festival internazionale di film sull'arte contemporanea

La 14ma edizione di Artecinema, Festival Internazionale di Film sull’Arte Contemporanea curato da Laura Trisorio, si terrà a Napoli dal 15 al 18 ottobre 2009, nel centralissimo Teatro Augusteo (1400 posti).

Ad ingresso gratuito, Artecinema è il primo festival del genere in Italia e rappresenta un appuntamento insostituibile dal 1996; riconosciuto a livello internazionale per il suo alto valore culturale e didattico, si avvale del sostegno di istituzioni pubbliche e sponsor privati.

Nelle tre sezioni del festival – Arte e Dintorni, Architettura, Fotografia – vengono mostrati documentari sugli artisti, gli architetti e i fotografi più interessanti della scena contemporanea con proiezioni dalle 17 alle 24 (senza repliche) intervallate da incontri e dibattiti con registi, artisti e produttori.

La manifestazione è inserita nel percorso di avvicinamento al Forum delle Culture 2013 e dedica al tema del Forum – Lo sviluppo sostenibile – molti dei film in programma.

I temi dell’identità culturale, del nomadismo, dell’emigrazione, della contaminazione, affrontati da artisti quali Cindy Sherman, Kimsooja, Doris Salcedo, William Kentridge, Alfredo Jaar, sono questioni cruciali per il futuro dei popoli nell'ottica di una crescita culturale "sostenibile", così come è fondamentale la questione dell’ambiente e dell’ architettura ecocompatibile, come ci insegna Nader Khalili in Designing with Nature.

In anteprima europea sarà presentato Compassion:William Kentridge, Carrie Mae Weems, Doris Salcedo, della serie Art 21 dell’emittente televisiva PBS.

In prima nazionale sarà presentato il film di Chiara Clemente Our City Dreams che vede protagonisteNancy Spero, Marina Abramovic, Kiki Smith, Ghada Amer e Swoon, artiste molto diverse per generazione, stile e cultura.

Grande attesa per il film Chew the fat diretto da Rirkrit Tiravanija una conversazione a più voci con alcuni tra i più noti artisti del momento: Andrea Zittel, Angela Bulloch, Carsten Hoeller, Dominique Gonzalez-Foerster, Douglas Gordon, Elizabeth Peyton, Jorge Pardo, Liam Gillick, Maurizio Cattelan, Philippe Parreno, Pierre Huyghe, Tobias Rehberger.

Nella sezione fotografia sarà presentato il film Visual Acoustic: The Modernism of Julius Shulman, tributo a uno dei più noti fotografi d’architettura al mondo, scomparso di recente ed un filmato su Mimmo Jodice.

Sono in programma, inoltre, documentari sugli artisti Jörg Immendorff, Anish Kapoor, Sam Francis, Tony Cragg, Alexander Calder, Richard Serra, Spencer Tunick, Felice Varini, Jenny Holzer, Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla; sugli architetti Peter Eisenman, Zaha Hadid, Steven Holl.

Per tutti i filmati in lingua originale è prevista la traduzione simultanea in cuffia.

Il programma definitivo verrà pubblicato sul sito www.artecinema.com.

Artecinema
14°Festival Internazionale di Film sull’Arte Contemporanea
15, 16, 17, 18 ottobre 2009, Ore 17/24
Teatro Augusteo
Piazzetta Augusteo Napoli
Ingresso alle proiezioni: gratuito
Lingua Originale/traduzioni simultanee
www.artecinema.com
Informazioni generali:
Associazione Culturale Trisorio
Riviera di Chiaia 215
80121 Napoli
Tel/fax +39 081 414306

martedì 22 settembre 2009

The age of stupid

http://www.ageofstupid.net/

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di: Franny Armstrong
Gran Bretagna, 2009

Sarà sugli schermi internazionali da martedì 22 in occasione dell'incontro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, il documentario The age of stupid di Franny Armstrong.
Il documentario è costruito sulla sconcertante evidenza che "non ci siamo salvati quando potevamo" non abbiamo guardato al futuro, correggendo il processo di manipolazione e stravolgimento del pianeta, del cambiamento climatico, del riscaldamento globale. La questione è affrontata mediante un punto di vista temporale capovolto, la "mostrazione" di un futuro prossimo catastrofico ancora evitabile. L'esperimento, salutato come l'evento cinematografico del decennio, si basa sull'interpolazione tra documentario e genere fantascientifico, e quindi tra etica e cinema:

☛l'evento mira a diventare la premiere più vista della storia del cinema grazie alla tecnologia satellitare che permette nei cinema predisposti, di trasmettere in alta definizione qualsiasi contenuto multimediale in contemporanea. Questo aspetto, che consente di risparmiare sulla produzione delle pellicole e sulla loro distribuzione, abbatte notevolmente le emissioni di Co2, un risultato già ottenuto nei 3 anni di produzione del film: i 105 membri della crew hanno consumato quello che 8 cittadini britannici o 4 americani consumano in un solo anno. La premiere mondiale consumerà appena l'1% di emissioni rispetto ad un normale evento di promozione globale di un film. (mymovies)




www.ageofstupid.net
http://www.wwf.it
now showing at
Abbiate Guazzone (Va)- Nuovo- P.zza Unità d’Italia 1
Agnosine (Bs)- Giovanni Paolo II- Via G. Marconi 43
Genova - Cineplex porto antico- Magazzino del cotone
Frascati (Rm)- Politeama- Largo Panizza 5
Lioni (av)- Nuovo- Via Nittoli snc
Mantova - Cinecity Mantova- P.le Beccaria 5
Rimini - Tiberio- V.le Tiberio 69
Roma - Nuovo cinema Aquila-Via l’Aquila 68
Rozzano (Mi) - Medusa multi cinema-Via S. Pertini 30
Sanremo- Ariston-Via Matteotti

venerdì 18 settembre 2009

vuoi sapere come va a finire?

Come farsi odiare rivelando il finale...?
...segnalando un "simpatico" sito (e relativo libro) in cui, con dissacrante ironia, vengono smantellati in 2 secondi finali e sensi ultimi dei film, in pratica tutto ciò che nella maggior parte dei film "illusionistici" ci tiene attaccati alla poltrona col fiato sospeso.
Personalmente non ricordo mai le anticipazioni che leggo, le indiscrezioni che ascolto, e quando le ricordo, quella memoria si auto-cataloga in un archivio troppo vasto e disordinato per poter essere consultato. Un archivio costruito sulla base di informazioni troppo astratte per poter contaminare l'innocenza della visione concerta. "Spoilerate" quanto volete, ma non riuscirete a rovinarmi il gusto di arrivare fino alla fine del film, nè la speranza che potesse finire diversamente.

-http://www.spoilerin.com/sp/


domenica 13 settembre 2009

off_Venezia

Premi ufficiali
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- Leone d’Oro per il miglior film: Lebanon
di Samuel MAOZ (Israele, Francia, Germania)
- Leone d'Argento per la migliore regia: Shirin NESHAT per il film Zanan bedoone mardan (Women Without Men) (Germania, Austria, Francia)
- Premio Speciale della Giuria: Soul Kitchen di Fatih AKIN (Germania)
- Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile: Colin FIRTH nel film A Single Man di Tom FORD (Usa)
- Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile: Ksenia RAPPOPORT nel film La doppia ora di Giuseppe CAPOTONDI (Italia)
- Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore o attrice emergente: Jasmine TRINCA nel film Il grande sogno di Michele PLACIDO (Italia)
- Osella per la miglior scenografia: Sylvie OLIVÉ del film Mr. Nobody di Jaco Van Dormael (Francia)
- Osella per la migliore sceneggiatura: Todd SOLONDZ per il film Life During Wartime di Todd SOLONDZ (Usa)

Orizzonti
- Premio Orizzonti al film Engkwentro di Pepe DIOKNO (Filippine)
- Premio Orizzonti Doc: 1428 di DU Haibin (Cina)
- Menzione Speciale: Aadmi ki aurat aur anya kahaniya (The man’s woman and other stories) di Amit DUTTA (India)
Controcampo Italiano
- Premio Controcampo Italiano: Cosmonauta di Susanna NICCHIARELLI (Italia)
al regista Kodak offrirà inoltre un premio del valore di 40.000 Euro in pellicola cinematografica negativa nei formati 35 o 16mm (a discrezione del vincitore) che gli permetterà di girare un altro lungometraggio.
- Menzione Speciale: Negli occhi di Daniele ANZELLOTTI e Francesco DEL GROSSO (Italia)

Corto Cortissimo (Premi assegnati il 10 settembre 2009)
- Leone Corto Cortissimo al film Eersgeborene (First Born) di Etienne Kallos (Sud Africa, Usa)
- Candidatura Mostra di Venezia per gli European Film Awards (EFA): Sinner di Meni Philip (Israele)
- Menzione speciale: Felicità di Salomé Aleksi (Georgia)
Premio “Luigi De Laurentiis" per un'Opera Prima
Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima (Luigi De Laurentiis): Engkwentro di Pepe DIOKNO (Filippine) - ORIZZONTI
Nonché un premio di 100.000 USD, messi a disposizione da Filmauro, che saranno suddivisi in parti uguali tra il regista e il produttore.



Premio Persol 3-D per il miglior film 3-D stereoscopico dell’anno (Premio assegnato l'11 settembre 2009)
- Premio Persol 3-D al film The Hole di Joe Dante (Usa)

fonte: http://www.labiennale.org/it/cinema/index.html

premi collaterali: http://www.labiennale.org/it/cinema/news/collaterali.html

articoli:
-http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20090912/pagina/12/pezzo/259713/

-http://www.unita.it/news/culture/88321/al_soul_kitchen_di_fatih_akim_si_mangia_male_e_si_ride_molto


giovedì 10 settembre 2009

Venezia/Svezia/Italia: Videocrazy di Erik Gandini

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Videocrazy
di Erik Gandini

Nell'ormai quotidiano attacco della stampa estera all'Italia e al suo Divo, presidente del consiglio Silvio Berlusconi, si insinua un inconsueto punto di vista esterno/interno, quello di un brillante documentarista italiano, Erik Gandini, che da qualche anno guarda alle faccende del "bel" paese con un cannocchiale spietato: la Svezia; Videocrazy ultimo documentario presentato nel contesto della Mostra del Cinema di Venezia, è il frutto di quello sguardo.




In attesa di vederlo e poter riportare un'impressione, esorcizzo la curiosità con un piccolo contributo all'inquadramento dell'autore, alla sua opera, soffermandomi in particolare sull'ottimo Surplus.
Infine posto alcune recensioni a Videocrazy dedotte dalla sezione dedicata al Festival del Cinema di Venezia su Repubblica.it.


Biografia: Nato a Bergamo nel 1967, si trasferisce in Svezia all’età di 18 anni dove vive tutt’ora. Il suo primo documentario, RAJA SARAJEVO realizzato nel 1994, narra la storia di un gruppo di giovani amici nella Sarajevo assediata. Il documentario è stato realizzato con una piccola telecamera hi-8 durante la guerra. Da allora Gandini ha realizzato documentari che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti in ambito internazionale. NOT WITHOUT PRIJEDOR, 1996 AMERASIANS, 1998 SACRIFICIO-Who betrayed Che Guevara? 2001 SURPLUS-terrorized into being consumers 2003 Vincitore del Silver Wolf all’International Documentary Filmfestival di Amsterdam Il suo ultimo lavoro è GITMO-THE NEW RULES OF WAR, co-diretto con Tarik Saleh e presentato in anteprima all’IDFA di Amsterdam dove è stato inserito nelle prestigiose sezioni ”Joris Ivens” e Amnesty International Award. GITMO ha vinto il primo premio al Seattle International Film Festival 2006 ed il gran premio della giuria al Miami Film Festival 2006.

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Già vincitore di diversi premi internazionali con il suo doc/videoclip Surplus – Terrorized Into Being Consumers, in cui la società contemporanea viene mostrata e analizzata al ritmo dei battiti dello spettacolo del consumismo e dei meccanismi di potere. Le tematiche che sottendono ai movimenti no-global, le denunce rivolte alla gestione e al consumo folle delle risorse mondiali, denaro, inquinamento, il "caso" cubano (alter ego), sono in qualche modo incanalate nel flusso di un sostrato ideologico-filosofico, che non coincide necessariamente con quello dell'autore, ma che l'autore utilizza come chiave di lettura dell'oggetto in esame: parte massiccia del documentario è, infatti, occupata da un'intervista all'intellettuale anarchico John Zerzan, ideatore del "Primitivismo", considerato erroneamente come l'ispiratore dei Black Bloc, sulla scorta delle fondamenta e degli enunciati del proprio pensiero, che sostanzialmente propone un ritorno alla fase preistorica dell'uomo, all'età della pietra, una sorta di passo indietro, di azzeramento del processo di civilizzazione, visto come processo di distruzione del pianeta, e di allontamento dalla natura dell'uomo. "Come mai la gente cerca di protestare, di fare qualcosa? Non si tratta di violenza insensata. L'insensatezza è starsene seduti a farsi canne guardando Mtv, per poi trovre un lavoro, fare i pecoroni. Quella è violenza per me".
Il carattere irrazionale del sistema capitalistico, le sue contraddizioni sono denunciate in modo palese attraverso un montaggio/commento alla Debord, con l'accostamento di immagini riprese dalla realtà banale e quotidiana e nel contempo ufficiale, chiamate a rappresentare la welthanshaung del sistema che si sta sarcasticamante illustrando.



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Autore: Giacomo Vallati - Testata: Avvenire

(...) "Videocracy - Basta apparire" (...) nel tentativo di dimostrare che "Silvio Berlusconi ha creato un binomio perfetto, caratterizzato dall'unione fra politica e in trattenimento televisivo", è alla prova dei fatti molto poco "documentario". Pur partendo da non originali ma in larga rarte condivisibili considerazioni sul gusto spesso vacuo e volgare di molti programmi delle tv commerciali, non riesce alla fine ad approfondire in maniera davvero soddisfacente e originale il tema annunciato. Peggio: nel tentativo di farlo, dà ampio spazio proprio a quei criticabili personaggi che hanno contribuito al suddetto imbarbarimento (...) Alla fine, insomma, ci si trova con un lavoro a metà. Non abbastanza profondo per indagare davvero l'annunciato binomio (...) e non abbastanza originale per risultare un interessante operazione cinematografica, pur con la sua valenza militante. Rai e Mediaset hanno rifiutato gli spot del film. E in questo modo gli hanno dato un ulteriore valore politico. Ne valeva davvero la pena?

Autore: Paola Casella - Testata: Europa

Difficile immaginare che cosa uno spettatore scandinavo capirà dell'Italia contemporanea vedendo "Videocracy"(...) (perché) "Videocracy" sceglie una narrazione sommaria e per molti versi superficiale della cultura dell'apparenza e dell'apparire che ha caratterizzato l'Italia berlusconiana, quella nata (o raccontata?) con le tv private e gli spogliarelli di "Colpo grosso" e culminata, secondo il documentario, con il sultanato di Lele Mora e la dannazione mediatica di Fabrizio Corona, raccontati come mostri contemporanei direttamente collegabili al sistema di disvalori promossi dal premier quando era ancora "solo" un imprenditore televisivo. (...) Il problema del documentario, oltre ad una inspiegabile lentezza nel montaggio e a uno scarso senso estetico nel posizionare la cinepresa, è quello di non arrivare veramente al nocciolo della questione nel descrivere l'importanza del controllo delTimmagine nell'ascesa di un potente, come invece ha fatto magistralmente (e con essenziale brevità) Marco Belpoliti nel suo saggio "Il corpo del capo". E nel contempo arrivare al limite della glorificazione di ciò che Gandini apparentemente disprezza: Fabrizio Corona viene raccontato come un modello, negativo sì, ma efficace e carismatico. Quanti ragazzi, vedendo "Videocracy", avranno voglia di imitarlo?

Autore: Boris Sollazzo - Testata: Film TV

(...) Eccola l'Italia spiegata a uno straniero da un italiano che all'alba dell'Era Berluscoide è andato in Svezia. Gandini non è come noi, non si è abituato. Non ha smesso di indignarsi solo perché il futuro sarebbe stato peggiore del presente. Ha la filmografia (da "Gitmo" a "Sacrificio", passando per la Bosnia) di chi conosce l'orrore di un mondo che precipita sorridendo. E non ha paura di sporcarsi le mani per scendere negli ingranaggi e arrivare al sistema. Il nemico non è Berlusconi, ma questa Italia. Un Paese di morti viventi che merita solo una Corona di spine.

Autore: Alberto Crespi - Testata: l'Unità

(…) L’unico momento cinematograficamente forte di "Videocracy " è un’intervista a Lele Mora nella quale il noto agente di personaggi televisivi, dopo aver paragonato Berlusconi a Mussolini a tutto vantaggio di quest’ultimo, si dichiara «mussoliniano» e mostra alla telecamera il display del suo telefonino sul quale, al suono di "Faccetta nera", appaiono svastiche, croci celtiche e orrori del ‘900 assortiti. E dietro tutto ciò, il volto di Mora, sorridente e pacioso. Ecco, quello è un momento in cui si ha la sensazione di guardare negli occhi il Male, un Male tanto più pericoloso in quanto ridicolo e apparentemente innocuo. Sono cose che sapevamo, ma che è utile ripassare. In Svezia, penseranno che l’Italia è un manicomio in cui i pazzi hanno preso il potere, e forse andranno in ferie altrove. A voler censurare Gandini dovrebbero essere gli albergatori, non la Rai.

martedì 18 agosto 2009

UNA GIORNATA PARTICOLARE: ADDIO TULLIO

1928-2009: La scomparsa di Tullio Kezich.

Tullio Kezich

Il Corriere della Sera
Nell’ininterrotta polemica sul fascismo, che ha ripreso vigore negli ultimi anni e conosce periodicamente momenti caldi, si inserisce molto bene Una giornata particolare (quella dell’ultimo giorno di Hitler a Roma, marzo 1938). Scola e i suoi sceneggiatori, Maccari e Costanzo, hanno avuto l’idea semplice ed efficace di partire dalle tematiche attuali del femminismo e del fronte omosessuale per cercarne un’esemplificazione nel momento più cupo della nostra storia. Il film narra, infatti, il brevissimo incontro tra una tipica donna-schiava, inchiodata ai suoi compiti di riproduttrice e di casalinga, con un sensibile e fragile maschio rifugiatosi nelle amicizie particolari e per questo sottoposto alle persecuzioni del regime. Mentre tutto il caseggiato popolare di San Giovanni si riversa nelle strade per la parata militare, i due protagonisti si incontrano, si confessano e si amano. Qualche lieve macchinosità nella meccanica degli incontri non toglie smalto all’interpretazione di una Sophia Loren finalmente in vestaglia e ciabatte e di un Mastroianni in stato di grazia. Il delicato e indefinibile legame fra i due, che sarà troncato la sera stessa quando l’uomo partirà per il confino, è sottoposto al bombardamento acustico delle radio, aperte a tutto volume per inondare l’Italia di inni e discorsi. In questo clamore insulso, al quale non si sfugge, chi ha vissuto gli anni del fascismo ritrova in pieno la malvagità di un’epoca.



Una giornata particolare
di: Ettore Scola
1977

Cosa accade nel mondo reale, mentre nell'Italia fascista si tiene la parata in onore di Hitler in viaggio in Italia nel 1938?
Antonietta, moglie e madre di sei figli, e Gabriele, un omosessuale che sta per essere mandato al confino, sono gli unici abitanti dell'immenso condominio romano rimasti a casa.
Gabriele è un ex annunciatore radiofonico, licenziato perchè disfattista e con tendenze depravate, è omosessuale, è antifascista, è un uomo solo in attesa di essere mandato al confino, è sul punto di suicidarsi quando Antonietta bussa alla sua porta (è un personaggio che tocca due tabù del cinema fascista: l'omosessualità e il suicidio).
Antonietta è ignorante, inquadrata nel proprio ruolo di moglie e di madre, di cittadina dello stato fascista; cultrice feticista del mito marziale di Mussolini, cattolica, puritana.
Ma non tutto è come sembra: Antonietta è in realtà incontaminata e fragile, c'è una debordante umanità dietro le idee scolpite sul guscio fragile della società fascista, guscio rotto dalla sincerità e dalla sofferenza dello sguardo e delle parole di Gabriele.
Dopo un prologo documentario, con le immagini di Mussolini in compagnia di Hitler durante la visita in Italia, il film di finzione vero e proprio ha soltanto due momenti di contatto con il regime: un album di fotografie del duce minuziosamente raccolte da Antonietta, e la presenza ossessiva del commento radiofonico all'evento del giorno, alter ego degli schermi inspegnibili in 1984 di Orwell, il quale, a ben guardare, è il sostrato ideologico-narrativo dell'intero film (un uomo e una donna che si osservano, che dissentono ad un regime totalitario in modo solitario, silenzioso, cercando di nascondersi agli sguardi indiscreti dei garanti della moralità e del partito; poi l'incontro, il contatto e l'erotismo come trasgressione; il finale tragico).
Le fotografie del duce sono il simbolo del rapporto superficiale e infantile che intercorre tra popolo e potere, un consenso non ragionato, ma passivo; Antonietta è impreparata e scossa quando posta di fronte agli interrogativi e alle perplessità di Gabriele.
L'album di fotografie, segni della fedeltà al duce della protagonista, è parziale, frammentaria, ma esaustiva della mentalità costruita e in costruzione durante il fascismo, mentalità che si pone come punto nevralgico nella formazione della cultura italiana.
L'uomo non è uomo se non è marito, padre, soldato.
Il concetto di virilità scandisce il ritmo della propaganda fascista ed è la chiave espressiva utilizzata dall'autore per verificare la propria ipotesi. Se lo stato fascista ordina e stabilisce il criterio di selezione di un'umanità giusta o sbagliata, lo stato fascista ordina e indica gli esclusi per natura o per scelta. Una giornata particolare è la storia di questi esclusi, è la giornata di chi rimane fuori dall'ufficialità, da chi di fatto è fuori dalla società.Chi meglio di una donna e di un omosessuale possono personificare il "non-virile", il femmineo?
C'è una lettura moderna della questione femminile e omosessuale, possibile solo alla luce degli sconvolgimenti della morale e della società italiana tra 1960/1970, ancora affrontate con l'espediente dell'ambientazione in epoca fascista in cui i pregiudizi sessuali e le resistenze della cultura maschilista hanno una naturale e spontanea collocazione; viceversa una chiave di lettura sul senso profondo del fascismo, sul suo significato ontologico, può essere fornita proprio a partire dalla metafora erotica e marziale del Duce (così come di recente Vincere di M. Bellocchio).
▼Inconciliabile con la fisionomia e la psicologia femminile il genio è soltanto maschio.
Donne fasciste voi dovete essere le custodi del focolare.





giovedì 30 luglio 2009

DIETRO LE QUINTE: LA SCRITTURA ASSENTE

La sceneggiatura.

Uno dei più bizzarri aspetti del Cinema è il ruolo che occupa la sceneggiatura nella complessa e composita costruzione del suo "prodotto" finale: il film. La sceneggiatura è il luogo in cui si suda e si immagina il film: accartocciata, stropicciata, cestinata o dimenticata, ignorata, uccisa dal suo stesso figlio (il film) ha tuttavia un ruolo essenziale e, naturalmente, frustrato. La beffa risiede nella sua natura fantasmatica: la stesura di una sceneggiatura ha ontologicamente una natura letteraria, essa è scrittura, ma assente; una scrittura che scompare vaporizzandosi in immagine, concretizzandosi come idea visiva/oggetto riflesso. La sceneggiatura è l'antitesi del testo letterario, in quanto questo agisce partendo dall'osservazione della realtà, modificandone l'immagine "vista" in immagine "raccontata"; la sceneggiatura, al contrario, prevede la modificazione del racconto in visione. Questione spinosa e affascinante che rimanda alla natura spugnosa del cinema, alla sua capacità di appropriarsi di tutti gli strumenti tradizionali dell'arte, ma rivoluzionandoli e stravolgendoli.
Rimando a un passo di un testo fondamentale sull'argomento di F. Vanoye.

La sceneggiatura, oggetto «cattivo»
da: La sceneggiatura, forme dispositivi modelli di Francis Vanoye.

Oggetto cattivo. perché transitorio, privo di futuro, oggetto «né...né».Tra letteratura e cinema, la sceneggiatura non è scritta. Non è il luogo di un'elaborazione della scrittura come possono esserlo il romanzo o il teatro: le descrizioni e i ritratti esistono soltanto come informazioni necessarie, le considerazioni riflessive sono bandite, lo stile narrativo è al grado zero.
[...] Ma la sceneggiatua non è neppure un film: non comporta vere immagini, veri effetti di montaggio percettibili, per non parlare del suono e della voce...
Transitoria, «struttura che vuole essere un'altra struttura», diceva Pasolini, la sceneggiatura «non è costruita per durare, ma per cancellarsi, per diventare altro». La sceneggiatura viene letta nella prospettiva immaginaria del film. Si inserisce in un percorso, in un processo a più fasi, in una catena di scrittura e di riscrittura di un racconto che ende al film come obiettivo ultimo. Ha un'esistenza e una funzione essenzialmente pratiche. Il più delle volte non viene pubblicata.
[...] Molti cineasti negano l'importanza della sceneggiatura o la specificità della sceneggiatura. Eric Rohmer dice di scrivere storie fine a se stesse, che poi regolarmente si rivelano filmabili; ma lui non scrive sceneggiature...Ma che cosa è una «storia filmabile», se non precisamente una sceneggiatura?
Scritta a catena, collettivamente o individualmente, a lungo preparata o semimprovvisata, intoccabile o aggiornata in continuazione, la seneggiatura costituisce un insieme di proposizioni per l'elaborazione di un racconto cinematografico, proposizioni che entrano in interazioni con le operazioni di ripresa, di montaggio-missaggio ecc. Essa interviene a livello dei contenuti, dei dispositivi narrativi, delle strutture drammatiche, della dinamica e del profilo sequenziali e infine dei dialoghi. In tal senso partecipa della messa in scena, senza negare, evidentemente, l'apporto decisivo, eventualmente conflittuale o contraddittorio, degli elementi di messa in scena relativi alle riprese e al montaggio: Truffaut non parlava di girare contro la sceneggiatura, di montare contro le riprese?
Anche in questo senso, la sceneggiatura è un modello. Modello in senso, o in funzione, strumentale. In qualche modo, la sceneggiatura è il modello del film che deve essere realizzato.
È la base, il referente, il termine medio tra il progetto (il fantasma?) e la sua realizzazione. Raffigura astrattamente il film e lo determina concretamente: è un bozzetto; come tale, riproduce certe proprietà del film ma in un altro linguaggio e secondo un'altra scala



venerdì 10 luglio 2009

OSSESSIONE


"PREMESSA FILOSOFICA A MO' DI SCUSA".

Riprendo dall'inizio la parabola di Visconti e il mio sorprendente interesse attuale per questo regista "rifiutato", autore incomprensibile agli occhi di una ragazza cresciuta negli anni 80 del 1900, nell'esasperazione del gusto thash/pop, inconciliabile con mie ignoranze che vanno ben oltre la conoscenza della Storia, troppo cupe per essere qui elencate. Da un'occhiatina sprezzante dei tempi del liceo, a uno sguardo annoiato (ricordo la visione/sogno di Senso, in un letto napoletano a via Tarsia; se non ricordo male dormivo!) passando per un periodo di oblio, attraverso l'assuefazione al suono del suo nome "Visconti", come un soprammobile eterno a cui nessuno più fa caso. Ora, sebbene ancora distante da una comprensione "totale" e profonda (a onor del vero neanche decente), consapevole dell'impossibilità di parlare di Visconti senza cadere nella banalità e nell'ovvio, mi trovo a vivere l'inizio di una storia d'amore appassionante, in cui galeotto fu Ossessione.

OSSESSIONE
Luchino Visconti, 1943

Il vagabondo Gino (Massimo Girotti) si ferma per un pasto nella trattoria "Ex dogana" dove incontra Giovanna (Clara Calamai), la moglie del vecchio e grasso proprietario. Travolto dalla sua passione, dalla sua disperazione, Gino rimane imbrigliato nell'ambiguo quadretto familiare: la donna, per impedire a Gino di ripartire, finge che l'uomo non abbia pagato il conto, in questo modo Gino è costretto a saldare il suo debito lavorando per qualche giorno alla trattoria.
La storia d'amore tra Gino e Giovanna diventa immediatamente "ossessiva", imposssibile da gestire: Gino vorrebbe che Giovanna lo seguisse per costruire insieme una vita altrove, lontano dalla finzione, dallo sporco gioco alle spalle del vecchio bonaccione. Ma i piani di Giovanna sembrano altri, così Gino decide di ripartire. La sua esistenza è stata tuttavia già segnata, la sua ossessione per Giovanna è una strada senza uscita. Quando, non molto tempo dopo, si rincontrano casualmente, la donna lo convince a compiere un gesto estemo: uccidere il vecchio inscenando un finto incidente automobilistico.
Ora Les amants diaboliques sono liberi di vivere la loro passione, ma qualcosa va storto, evidentemente l'ossessione è destinata a non esaurirsi: le indagini sull'incidente avanzano, i testimoni raccontano, gli amanti fuggono, la polizia incalza, un incidente...

Il dramma è realizzato con la mediazione di un'opera letteraria: Il postino suona sempre due volte di James Cain e sulla base di una sceneggiatura ben solida: il personaggio/ virus che si insinua in una situazione precedentemente felice, sconvolgendola [questo tipo di struttura è stata spesso utilizzata per sperimentare gli effetti virali della collocazione di un personaggio fuori dagli schemi in un ambiente borghese (Teorema di Pasolini)]. La figura del vagabondo è funzionale alla messinscena della dialettica sociale, di un certa perversione della classe borghese per gli spiantati; l'ipocrisia della famiglia e i meccanismi che ne regolano la costruzione o la decostruzione: la femme Giovanna rienta nella più pura misoginia decadente, mortifera, calcolatrice, dominata da un attaccamento al denaro, è sposa per un'esigenza di scalata sociale ed è amante per interesse, i suoi pensieri/ movimenti sono dominati suo malgrado da un istinto di ordine pratico, da un'assenza di emotività agghiacciante.

Seguendo un percorso storiografico di lunga durata, Visconti realizza un primo e non solo abbozzato progetto di realismo cinematografico a lungo prospettato, ma a lungo rimandato dalle resistenze del regime fascista, dall'esigenza di autorappresentazione celebrativa e propagandistica; egli pone il primo mattone del grandissimo palazzo che dovrà essere costruito, "la cometa che annuncia tempi nuovi" (Brunetta) per il cinema, la svolta dello sguardo con cui l'Italia guarderà a se stessa: il Neorealismo.

"Con i suoi squarci di paesaggio che palpitano di una vita ora indipendente ora in simbiosi con il dramma di Gino e Giovanna - dice Brunetta - il film sconcerta il pubblico in quanto lo sguardo del regista ha una tale forza che, quasi per effetto di sinestesia, moltiplica e dilata i suoni provenienti da sfondi tadizionalmente inerti e silenziosi e li trasforma in un urlo di inaudita violenza".

☞postilla
Girato a Ferrara il film fu in fase di ripresa, vissuto/ visionato dagli occhi inesperti di un giovane futuro cineasta italiano, Florestano Vancini, il quale confessa l'importanza di quell'esperienza per la nascita della sua vocazione cinematografica:

Nel 42, quando fu girato Ossessione, la città era deserta. [...] Intorno alla troupe diretta da Visconti c'era una certa curiosità iniziale, che si spense progressivamente. La delusione era legata in gran parte al modo in cui si svolgevano le riprese del film. Io stesso ero perplesso, mi chiedevo se il cinema si facesse così. Non comprendevo perché una scena che a me sembrava sembrava andasse bene, per il regista fosse completamente da rifare. Ci sembrava che quelli della troupe passassero giorni interi a ripetere sempre lo stesso movimento: vedevamo una donna seduta su una panchina, intenta a fare i ferri, le cade il rotolo, in seguito arriva una bambina...Tutta la mattina a fare sempre la stessa cosa, e mai una volta che Visconti fosse soddisfatto.
Così a Ferrara si sperse la voce che fossero degli incapaci. Nell'idea popolare il cinema era qualcosa di magico, capace di incantare lo spettatore: la perfezione assoluta. [...] L'idea che alla base di un film ci fosse quello che vedevamo sul set di Visconti era per certi versi, difficile da accettare. [V. Napolitano, Florestano Vancini, Intervista a un maestro del cinema, Napoli, Liguori 2008.]

lunedì 6 luglio 2009

Metablog: un blog passatista?

Riflettendo su un senso possibile, una direzione da dare a queste pagine "briganti" (senza professioni di falsa modestia, senza nascondere il punto di riferimento essenziale per ogni mia crescita stilistica e metodologica, sradico e mi approprio di un atteggiamento pasoliniano, contestualizzandolo però nella mia terra) realizzavo un fatto apparentemente sconcertante: i film che vedo, i film di cui scrivo, evidentemente non superano i primi sessanta anni di età del cinema!
Non era certo con tale approccio programmatico che ho iniziato la mia ricerca, disprezzo il cinema contemporaneo, ma prendo coscienza di questo fatto soltanto ora. In effetti la mia posizione risulta piuttosto isolata (probabilmente malata, volendo ossessiva): guardando, navigando tra i blog - non intendo certo generalizzare ma costruisco semplicemente il discorso sulle mie conoscenze attuali - traggo l'impressione di una malattia per il contemporaneo, uno sguardo presbite (contro il mio ipermetrope?) - che vede tutto (ma proprio tutto, senza scarti, senza scelte), ma nei limiti temporali di una settimana, un mese al massimo. Lo stesso dicasi ovviamente (come causa o come conseguenza) dei gusti del pubblico.
Ora mi chiedo, questi critici, anche ambiziosi, su quali basi fondano la propria ricerca e la propria essenza di esperti, senza la gavetta dei "padri"? Con quale criterio selezionano un'opera? Ha veramente senso scrivere una recensione di storie su una notte al museo o una vacanza alle Antille? Qual'è la funzione che attribuiscono all'azione dello scrivere? E se ho torto, perché ho torto, a giudicare il cinema come qualcosa di alto, di misterioso, una continua indagine nella storia della nostra epoca, ho anche ragione a tentare di sconfiggere il principio di cinismo che la storia ci richiede: la condanna di superficialità, di non catalogabilità del cinema nella rosa delle arti, come fatto essenziale della cultura della nostra epoca non può e non deve essere perseguito, non se questo avviene sulla scorta di giudizi basati su film, non su opere. Tale pretesa di giudicare il Cinema sulla base di un criterio cumulativo è concettualmente sbagliata. Che senso avrebbe in pratica parlare di letteratura, fondando un discorso critico sulla base di opere come le barzellette di "un calciatore" o il codice "Leonardo" le quali a mio parere non sono ascrivibili alla Letteratura ma al mercato della carta stampata. Analogamente che senso avrebbe parlare di Letteratura oggi, senza gettare mai un occhio ai classici di ieri?
E infine un momento di autocritica: l'interesse per il passato non può essere un fine feticistico, ma uno slancio, il fondamento per la comprensione del presente.

To be continued....

lunedì 22 giugno 2009

metablog: critica letteraria/critica cinematografica

Oggi (come ieri) ha senso l'istinto e la pratica della critica cinematografica? E' possibile una specializzazione o un controllo della materia trattata tenendo conto della mole di opere prodotte, della loro reperibilità, della loro digeribilità e comprensione in rapporto al tempo della "visione" e della "lettura"? Rimando ad una lettura capitatami recentemente negli abissi di "Paura e Desiderio" di Enrico Ghezzi, estratto di un articolo pubblicato nel 1985 su Filmcritica.

Alla memoria (dello scrivere di cinema)

[...] la critica cinematografica ha sempre aspirato alla dignità di quella letteraria, o di quella d'arte. Disperatamente accusando - rispetto alle altre "critiche" - una mancanza di sicurezza dei testi cui fare riferimento. In realtà, fondando proprio su tale insicurezza la giustificazione della propria esistenza. Nel caos apparente della produzione, stabilire i testi e qualche differenza tra di essi, fissare giudizi che comunichino la distribuzione in essi dei valori (d'uso, di scambio, d'acquisto). Non è un caso nè una vergogna che periodicamente riemerga la questione delle stellette e delle "palline" nei giudizi: non è spreco assurdo di parole, ma quasi il problema centrale della critica..La trivialità e la volgarità della critica cinematografica deriva in gran parte dallo sforzo che fa per definire e nobilitare la qualità della propria mediazione, per raggiungere un'improbabile aristocraticità.
*Mentre la critica letteraria si esercita sui testi ad essa omogenei e in genere facilmente disponibili (nel tempo e nello spazio) ma magari leggibili con qualche difficoltà o incertezza, quella cinematografica si trova a mediare verso testi in sè fruibili immediatamente da un vasto pubblico ma non sempre raggiungibili nello spazio e nel tempo.
*La raffintezza della critica letteraria può inventare o scoprire l'ambiguità anche nel testo più trasparente; il critico cinematografico, angustiato da parecchie incertezze (di carattere prettamente storiografico e conoscitivo: quante cose ci sono in un film...quanti agganci...quante persone ci lavorano...da dove vengono...dove vanno), è portato più facilmente a distruggere l'ambiguità (che in raltà è propria di ogni immagine cinematografica) cercando di dissolvere le incertezze stesse.
Il tentativo mimetico nei confronti di altre critiche approda quindi a un grottesco, quando si pensa all'impossibilità materiale di "vedere tutti i film", o comunque di studiarli. E i complessi del critico non sono senza motivo. Egli, in linea di massima, ha una scarsa conoscenza dei testi cui si riferisce...del testo filmico, avrà sempre una memoria più che una conoscenza. Oppure, volendo imparare "a fondo" un testo, dovrà vederlo e rivederlo, o addirittura selezionarlo alla moviola alterandone il tempo di visione e dilatando ancor più il dispendio temporale. Senza contare che (ciò che più conta) il film fermato o rallentato in moviola svela i suoi meccanismi ma muore nel suo "tempo di film", muore come oggetto reale di lettura e di studio, resta un corpo freddo da tavolo anatomico, reperto solo allucinatoriamente "scientifico", in realtà puramente immaginario e inesistente.[...]

venerdì 12 giugno 2009

Cimitero delle fontanelle.
(Uno dei luoghi visitati dalla Bergman in Viaggio in Italia.)

http://it.wikipedia.org/wiki/Cimitero_delle_Fontanelle

Viaggio in Italia


Viaggio in Italia (1953-4)
di: Roberto Rossellini

Frutto di una nuova fase di sperimentazione del mezzo cinematografico, in seguito allo scarso successo ottenuto con gli ultimi film realizzati, Viaggio in Italia chiude la stagione del Neorealismo rosselliniano per inaugurare una nuova era del cinema italiano i cui frutti saranno raccolti e rimodulati specialmente in Francia dal gruppo dei "Cahiers du cinéma" che ebbe come particolare punto di riferimento, manifesto programmatico ante litteram proprio questo film.
Una coppia di coniugi inglesi, Katherine e Alex Joyce (Ingrid Bergman e George Sanders) in viaggio in Italia per la liquidazione di una ricca proprietà ereditata da uno zio, percorrono un itinerario simbolico sulla condizione storica dell'individuo europeo in rapporto al tempo, il proprio tempo storico; un riflessione sul tempo attuata però mediante l'espediente del viaggio attraverso i luoghi vesuviani, i vicoli, con occhi "stranieri" ed "estranei", ambienti metaforici della reciproca indifferenza e distanza che sembra sorprenderli durante il viaggio e portarli inevitabilmente verso la separazione.
Katherine indaga con ritmo fallimentare ascendente Napoli i suoi luoghi d'arte, il Museo Archeologico Nazionale, Cuma, Pozzuoli, il Cimitero delle Fontanelle. Alex scava nella propria arroganza e superficialità ricercando divertimenti e compagnie femminili che puntualmente gli si sottraggono. L'ambiente ha un ruolo da protagonista assoluto, è la proiezione degli stati d'animo umani, ma è soprattuto la sottolineatura dell'ignoto e della separazione: tra uomo e ambiente, tra civiltà e culture, tra uomo e donna, tra passato e presente. L'epilogo del film sembra aprire uno spiraglio di ottimismo che riabilita l'ultimissima fase macabra della dissepoltura dei corpi di gesso negli scavi di Pompei: usciti dagli scavi Katherine e Alex si trovano coinvolti nella processione per la madonna, la folla di fedeli li travolge e li separa fisicamente rendendo palese un distacco che non desiderano.
Terzo ed ultimo film della cosiddetta "trilogia della solitudine", dopo
Stromboli Terra di Dio (1949-50) ed Europa 51 (1952), fase culminante del connubio artistico e personale tra la Bergman e Rossellini, che proprio a causa dello scarsissimo successo di critica e pubblico delle tre pellicole inizierà da qui in poi ad incrinarsi. Nella trilogia della solitudine troviamo lo strascico del mondo rappresentanto nella trilogia del neorealismo: "in un mondo apparentemente pacificato" (Lizzani), lo sgomento latente emerge sul volto della Bergman, delle crisi esistenziali e spazio-temporali che sono prima di tutto crisi di coscienza, una coscienza da ricostruire sia sul piano culturale che ideologico.
Il cinema inizia la fase di sperimentazione che troverà il suo culmine negli anni sessanta e nel filone esistenzialista; ne
La notte di Antonioni, l'estraneità di Jeann Moreau è un'attualizzazione e radicalizzazione dell'estraneità di Ingrid Bergman: non è più necessario uno spostamento spaziale enorme per interrogarsi sulla propria esistenza e scoprirne le contraddizioni, indolenza e solitudine sono l'hic et nunc dell'esistenza stessa. 

lunedì 25 maggio 2009

Cannes o la sala della tortura


E non è stata casuale questa mia rievocazione dell'opera prima di Bellocchio, ma in occasione della presentazione del suo ultimo film a Cannes, mi sembrava doveroso sottolineare l'inizio della carriera registica di questo grande autore italiano, l'unico presente a Cannes. Stupisce la notizia del mancato successo di "Vincere", come sottolineato dallo stesso autore nelle primissime dichiarazioni: ci si aspettava qualche riconoscimento vista l'entusiastica accoglienza di critica e pubblico.

Ma questo (come è stato detto) è stato il festival delle torture, il festival dei film-tortura, quelli che gli spettatori li massacrano e poi li fanno fuggire fuori dalle sale. Sembra che quest'anno la giuria abbia deciso di "non fare nessuna concessione al pubblico" direbbe Debord, e di promuovere la linea meno praticata e meno digeribile del cinema, quella che, checchè se ne dica, a respirarla, ci pulisce l'anima, ci purifica dalla mole di immagini digerite, dei valium narrativi, ci sconvolge, ci traumatizza, e ci porta sul serio sull'orbita del potenziale straordinario del cinematografo.

I premi:

PALMA D'ORO
"Il nastro bianco" di Michael Haneke
Austria.
GRAND PRIX
"Un profeta" di Jacques Audiard
Francia.
PREMIO SPECIALE
Alain Resnais
REGIA
Brillante Mendoza per "Kinatay"
SCENEGGIATURA
Feng Mei per "Spring Fever" di Lou Ye
ATTORE
Christofer Waltz per "Inglourious Basterd" di Quentin Tarantino
ATTRICE
Charlotte Gainsbourg per "Antichrist" di Lars Von Trier
PREMIO DELLA GIURIA (ex aequo)
-"Fish Tank" di Andrea Arnold
-"Thirst" di Park Chan Wook
CAMERA D'ORO PER LA MIGLIORE OPERA PRIMA
"Samson and Dalilah" di Warwick Thornton
MENZIONE SPECIALE PER LA CAMERA D'ORO
"Ajami" di Joao Salaviza

mercoledì 20 maggio 2009

MIRACOLO A MILANO



1951 di: Vittorio De Sica.
"C'era una volta...." il Neorealismo e c'è chi, come me, ancora si stupisce delle perle che portò a galla. A distanza di poche ore ho rivisto due delle più brillanti tra queste perle, Paisà e Miracolo a Milano
appunto, che in realtà trasborda dal Neorealismo vero e proprio, laddove Paisà ne rappresenta invece l'essenza/didascalia. L'uscita del film nel 1951 è contemporanea a quella di Francesco giullare di Dio (presentato a Venezia nel 1950), infatti entrambe le pellicole possono essere considerate come prove generali dell'uscita dal rigoroso neorealismo dei rispettivi autori, ormai giunti all'esaurimento del'ispirazione poetica e storica derivante dal clima che aveva alimentato il neorealismo stesso. Ambedue aprono a suggestioni nuove, contaminando la rappresentazione severa e integrale della realtà con condimenti favolistici e mistici, non tradendo tuttavia il patto con la società e con la storia. I soggetti sono ancora tratti dalla vita, nel caso di Miracolo a Milano (la condizione di senzatetto, orfani ed emarginati) e dalla storia, nel caso di Francesco, che trova già ispirazione per la vocazione didattica che sarà peculiare soprattutto della fase matura di Rossellini. Pur rimanendo nell'orbita del neorealismo, estetica e ideologica, le due pellicole aprono una nuova fase del cinema (e della storia): il tempo della ricostruzione della speranza e della memoria. Oserei dire che esiste un filo ideologico che lega queste due pellicole: la riscoperta e la rivalutazione del misticismo originario del cattolicesimo come valori da riconsiderare dopo le bassezze superomiste, violente, razziste, dei fascismi dei decenni precedenti; tanto Francesco (il quasi eretico) quanto Totò possono essere considerati come riletture della figura di Cristo.
Siamo a Milano, l'anziana signora Lelotta rinviene un neonato, Totò, abbandonato nell'orto di cavoli. Con un salto nel futuro vediamo una parentesi di Totò ragazzino, e della quotidianità vissuta nella casa di Lelotta, l'educazione ricevuta, a suon di favole e minestre. Rimasto orfano per la seconda volta Totò allogia in un orfanotrofio fino alla maggiore età.
Totò è un uomo quando ritorna per la strada, nuovamente orfano, di nuovo solo, ma accompagnato dal consueto ottimismo, da una bonaria fiducia nella vita, che non si arresta di fronte alle immediate difficoltà che incontra: la diffidenza, il cinismo, la povertà. Un uomo riesce a sottrargli la borsa, ma Totò lo segue finendo per patteggiare: la borsa in cambio di un posto letto, di una casa, ma di cartoni. Così inizia l'avventura di Totò fondatore di una nuova città, separata dalla vita reale (o più reale del reale) ed osteggiata dal nuovo acquirente del terreno su cui la città è sorta. Totò gestisce le difficoltà con fantasia e saggezza, e quando necessario ricorre al soprannaturale; Lelotta gli dona una colomba bianca, una lanterna magica capace di esaudire qualsiesi desiderio: così iniziano a materializzarsi i sogni più scontati o più bizzarri di chi no ha mai avuto niente, vestiti da imperatrice, armadi, e vettovaglie da un lato, il tentativo di superare la diversità, cambiare il colore della pelle, o dare vita alla statua simbolo della città.
La povertà viene analizzata con un approccio surreale e grottesco, gli eventi sono gestiti apparentemente al di fuori delle logiche idealistiche o politiche; è l'umanesimo dominante coperto di accenti favolistici e meravigliosi che rende l'impronta di Zavattini molto incisiva sulla struttura generale. Il motivo/ossessione "ci basta una capanna per vivere e dormir" esaurisce ogni possibilità di fraintendimento: non ci sono rivendicazioni, non c'è una reale denuncia nei confronti della povertà, ma c'è un certo compiacimento per la semplicità e l'ingenuità di questo mondo rovesciato in cui l'unico intervento, l'unica salvezza risiede nel sovrannaturale.
Il film non a caso fu proibito in Unione Sovietica e non piacque in Italia, tanto ai conservatori quanto ai comunisti: una bellissima favola che non lascia spazio alla politica, a meno che non la si voglia forzare in una lettura fortemente simbolica; si potrebbe allora riconoscere nel film una visione, un sogno degli autori, che raccogliendo la società orfana di se stessa, la spingono con l'utilizzo di una forza rivoluzionaria, non violenta, a ricostuirsi sulla base di valori ancora oggi incomprensibili all'umana specie.

martedì 19 maggio 2009

I PUGNI IN TASCA | BELLOCCHIO


1965
di: Marco Bellocchio.


Villa borghese nella campagna piacentina, quattro fratelli, Alberto, Ale, Giulia e Leone vivono con la madre cieca, i loro rapporti sono intricati, conflittuali e morbosi, appesantiti dalle "malattie" che presiedono le loro esistenze: cecità. epilessia, nevrosi, apatia, narcisismo, infantilismo. Escono solo per andare al cimitero, e ogni volta il viaggio ha una connotazione macabra, uno scopo funereo potenziale o tattile.
Alberto, il "capofamiglia", sembra essere l'unico "normale", esce, ha una ragazza, sogna il matrimonio, un appartamento in città. Scopriamo che Ale ha delle ambizioni, una volontà di emanciparsi: ha un progetto imprenditoriale, desidera imparare a guidare, e uccidere il resto della famiglia. Opta per l'assassinio della madre soltanto. Il matricidio diventa un vero e proprio punto di svolta, compiendo l'atto sacrificale supremo acquista consapevolezza di sè e guadagna il rispetto di tutta la famiglia, con Giulia si lega in modo più intimo, vagamente erotico, Alberto inizia a trattarlo con rispetto, gli permette di uscire con i suoi amici, lo porta con sè ad una festa. Tuttavia la sua emancipazione rimane frustrata, egli non riesce a sentirsi "normale", questo psyco sessantottino ante litteram compie un nuovo sacrificio, uccide l'indifeso fratello Leone. Dal "matricidio propizio" al "fratricidio funesto". La sua parabola è in discesa, in caduta, muore ed è lasciato morire.
Che cos'è l'individuo, secondo quali meccanismi esso si "inquadra", si schematizza, cerca un'appartenenza nella coppia, nella famiglia, nella società, come, quando (se) questi equilibri sono saltati definitivamente?

Simboli, personaggi, ambienti, parole, dialoghi, sguardi, miriadi di motivi avanzano la necessità di essere interpretetati, bussano alla porta "in cerca d'autore": mai un'opera prima ha stupito tanto; raramente un'opera ha racchiuso in sè il proprio senso storico senza mai sfiorarlo: i rapporti "sanguigni" e "sanguinari", gli ambienti claustrofobici e labirintici, l'individuo nevrotico e epilettico, l'incomunicabilità (la madre cieca) e l'omicidio tra passato e presente, tra cultura e "rivoluzione culturale", il sogno borghese e l'aspirazione a cogliere la sfida della "normalità" seppur nella mediocrità; tutto questo nel macrocosmo individuale/microcosmo sociale: la famiglia.
Tutto questo in un'opera simbolicamente barocca, ma esteticamente minimalista e sobria, condita di suoni provenienti dall'eterna e infinita mano di Ennio Morricone.
Si ritiene a torto o a ragione che "I pugni in tasca" sia un sogno premonitore del movimento del '68, un'anteprima su una rivoluzione non nel suo aspetto politico, ma nel suo aspetto ambientale: l'individuo che scalcia nell'utero claustrofobico delle proprie certezze, aprendo varchi di luce sì, ma inquietanti.

martedì 12 maggio 2009

Bronte: viva la libertà, abbasso i cappelli!



Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato.di: Florestano Vancini. Italia, 1971.

Approfitto di questo spazio per una riflessione su quest'opera e sul suo autore, Florestano Vancini, da poco scomparso, sconosciuti al grande pubblico e poco valorizzati anche in ambito critico.
Il film trae ispirazione da una novella di Verga "Libertà" (in: Novelle rusticane, 1883) a sua volta ispirata ad un episodio realmente accaduto durante il Risorgimento, e taciuto dalla storiografia: il massacro di cinque persone ordinato dal generale Nino Bixio, in seguito ad un processo sommario in cui gli imputati furono accusati delle morti di alcuni abitanti di Bronte, appartenenti alla categoria sociale dei cosiddetti "cappelli", classe di proprietari legati ai Borboni, in realtà uccisi durante una sommossa popolare, generata dall'entusiamo galoppante sull'onda dell'imminente arrivo di Garibaldi.
Le tappe, gli episodi narrati nel film, hanno alle spalle un vero e proprio lavoro di ricerca storica, con la raccolta di fonti e documenti processuali attraverso i quali Vancini ricostruisce un episodio taciuto della storia del Risorgimento, attuando un'operazione contro-storica, mettendo cioè in discussione la storiagrafia ufficiale; infatti il regista-storico fu accusato di spirito antinazionalistico. Il film aveva alla base l'intenzione di rappresentare l'episodio storico all'insegna dell'hic et nunc, in modo che lo spettatore avesse l'impressione di trovarsi al centro della vicenda, ottenendo una rappresentazione per immagini di tipo letterale: per certi versi la qualità estetica del film è disarmante, elementare, spontanea, e fa da supporto alla narrazione del "vero" integrale (non è un caso che il riferimento letterario sia Verga): il processo ke sfocia nella condanna alla fucilazione dei responsabili della strage avvenuta durante la rivolta, è una rappresentazione letterale degli atti del processo stesso. Raramente il cinema è stato usato con una vocazione a tal punto storica. La reviviscenza della poetica verista (praticata soltanto in due momenti della storia del cinema, il primo definibile come filone verista di origine napoletana, con Assunta Spina e Sperduti nel buio, il secondo con il neorealismo e le proiezioni documentarie degli anni 50 e 60. Vancini però va oltre e si delinea come storico, ovvero come cineasta che si sostituisce allo storico, in cui è l'opera cinematografica a fare da fonte, con il conseguente capovolgimento delle gerarchie.
Il cinema qui riesce a superare la propra essenza, transmutandosi nel proprio opposto, dalla finzione alla verità.

lunedì 11 maggio 2009

GOMORRA


DI MATTEO GARRONE


2008


Era necessario aggiungere altre parole sul film più discusso e più celebrato del 2008? Forse no, ma mi assumo la responsabilità di un'operazione pleonastica, solo per esprimere il mio dissenso rispetto a questo a film, sia nei riguardi della sua essenza come prodotto filmico, sia verso l'atteggiamento con cui è stato accolto da critica e pubblico.
Mi ha enormemente stupito il livello a cui si è giunti nella celebrazione di quest'opera onestamente scontata e francamente commerciale, soprattutto tenendo conto della qualità della fonte: il romanzo-inchiesta di Roberto Saviano, best-seller che ha aperto tutta una stagione di denuncia mass-mediatica sul tema delle organizzazioni criminali presenti sul territorio napoletano e casertano, che con coraggio era riuscito mediante la scrittura (questo fantasma) a portare all'attenzione dei molti (e non dei pochi, come spesso avviene nelle operazioni intellettuali) un problema inspiegabilmente (?) ignorato e taciuto da anni. La divulgazione e diffusione è stata certamente agevolata dal particolare momento storico, in cui "la questione napoletana" è stata il feticcio della classe politica in lotta per il potere, e direi anche determinante nella caduta del governo Prodi (vedi questione famiglia Mastella) e nel conseguente esito delle elezioni dell'aprile 2008. Il successo di Gomorra, libro prima e film poi, può essere considerato in questo senso causa e nello stesso tempo effetto della grande attenzione nazionale verso il problema napoletano, inceneritori, mozzarella alla diossina, immondizia per le strada (pare che sia magicamente scomparsa), che per qualche mese hanno distratto gli italiani dalla tragedia familiare di turno.
Tornando al film, mi oppongo, e questo su due livelli di giudizio:
1. In parte già esposto, sulla etichettabilià dell'opera quale film di denuncia, cosa appunto scontata vista la corsia preferenziale su sui correvano gli sceneggiatori, il libro di Saviano appunto, e come film formativo-educativo per un bacino di utenza variegata come quella napoletana, italiana, e non. Riduco la questione a due realtà geografiche soltanto, quella italiana e quella napoletana che con maggiori mezzi (seppur scarsi) mi posso permettere di valutare.
Rispondo a chi afferma: "I napoletani con questo film e attraverso questo film prendono coscienza dei meccanismi malavitosi che regolano gli affari della loro città, e comprendono la causa dei problemi che vivono quotidianamente". Tutti coloro in qualche modo coinvolti nei meccanismi malavitosi, vuoi come reali attori della camorra vuoi come semplici cittadini che a livello secolare sono stati penetrati da un certo tipo di mentalità diffusa, assistono alla messa in scena di un film spettacolare condito di tutti gli ingredienti tipici di un film spettacolare: avventura, suspance, salse erotiche, uccisioni, ecc. ecc., come nella maggior parte dei film in stile "americano", solo che qui i personaggi parlano la loro lingua, ascoltano le "loro" canzoni, ottenendo così una vera e propria sublimazione per immagini in movimento di quel contesto geografico-campanilistico che per quanto corrotto e orribile sia è pur sempre il "loro" mondo. C'è in fondo, grazie al potere che il cinema esercita, una sorta di rispecchiamento/proiezione dello spettatore nella materia trattata, il quale spettatore in questo caso non risulta offeso né indignato, poiché l'opera non fornisce nessun mezzo critico, non utilizza realmente nessun mezzo di denuncia, non propone realmente nessuna alternativa, non propone, come a mio parere sarebbe giusto, alcun personaggio positivo, ma si limita a riprodurre il senso di rassegnazione e di impotenza che ritrovo nella mia città, in questo popolo tradito, in me stessa.
Discorso diverso per ciò che riguarda la reazione degli italiani (intesi come entità geografica distinta dal territorio campano, non napoletano). Ho visto di recente il trailer del film, recitava "Il film che ha cambiato l'Italia"...(!!!). Bene. Di certo gli italiani si sono indignati, di certo la reazione di chi questo mondo non lo conosce affatto, di chi nulla ha da mettere in gioco, ma piuttosto ha da gongolare della propria estraneità, della propria superiorità morale e civile, trova la conferma delle proprie convinzioni, dei propri giudizi sull'universo macabro che è il Sud Italia e nella fattispecie Napoli sua capitale.
Un esempio per tutti della scorrettezza politica di questo film sta nell'episodio in cui Toni Servillo è a colloquio con un imprenditore (difficile avere dubbi sulle sue origini "polentone") il quale si assicura della "trasparenza" e della "pulizia" del processo di smaltimento di una quantità enorme di rifiuti tossici ad un prezzo quanto meno sospetto. Non credo casuale questa omissione di informazioni sui reali meccanismi che sottendono al ciclo di smaltimento di veleni provenienti dall'Italia settentrionale e riversati in ogni angolo del territorio campano. Le responsabilità diffuse sono taciute in favore di una compiacenza e un ammiccamento al potere economico e politico. Davvero un film coraggioso. Oggi più che mai assistiamo alla frammentazione dell'identità italiana, fenomeno utile al potere politico e alle leggi di tipo federalista che sono state attuate, di certo leggibili come esito di un lungo processo preparatorio; fenomeno che ha ottenuto una crescita esponenziale della demonizzazione di un popolo e di un territorio.
2. Dal punto di vista strettamente cinematografico il film ha diversi e molteplici punti di interesse, sia per il recupero di tradizioni del cinema italiano, nello specifico neorealiste, con l'utilizzo di attori non protagonisti e di scenografie "naturali" o ready-made (una per tutte: le "Vele" di Scampia), sia per la qualità della regia e del senso estetico generale che risulta dall'opera. Tuttavia in linea con la sua superficialità questo film contiene nel primissimo fotogramma la sua immagine più pregnante, più bella: l'uomo nello spazio, l'uomo che si proietta oltre se stesso, il superuomo, il senso di potenza e di invincibiltà, in realtà un uomo nella cabina di un centro abbronzante, che sta per morire, ucciso.