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sabato 25 gennaio 2014

La grande aridità della bellezza




Questo articolo è uscito sul blog della rivista La Mandragola 

di Serena Di Sevo

Qui inizio a scrivere e qui potrei fermarmi. Alla grande aridità di una realtà fatta di niente. Seguire la praticità bambina del non dire mai oltre il necessario: sì, no, e piangerne o riderne. Ma la brutalità di questo film risiede qui, nel suo argomentare oltre il necessario sull'ovvio e sull'inutile contorcendosi in un monologo interiore con una non-trama di premeditata vacuità. Potrei fermarmi col dire che questo film è brutto, che non è niente, ma non direi la verità. La grande bellezza non è il nulla, non è il niente cinematografico dei Siani furbetti, degli americani ancora eroi e di una sterminata cinematografia vigliacca e sempre buona.
L'affresco della crisi dello scrittore Jep Gambardella è banalmente il racconto del declino di un'epoca che proverebbe a fare un esperimento di realismo capovolto su una realtà ricca e sovraccarica di mezzi, di luoghi sicuri costruiti intorno all'individuo che, al contrario, si de-costruisce e si rifrange. Un esperimento fallimentare in nuce poiché la superficialità della realtà è già iperrappresentata, di più, auto-rappresentata e spettacolarizzata nella musica brutta, nella esternalizzazione dell'intimo, nella banalità dell'autoritratto ossessivo compulsivo esposto su facebook, nella ricerca del consenso e dell'approvazione, e nell'utilizzo di un linguaggio narcisistico privo di sostanza, ripetuto meccanicamente dall'ascolto e dalla lettura estemporanea.
Fumo negli occhi già visto in Gomorra, che peccava dello stesso male e della stessa mediocrità che pretendeva di denunciare con nessun altro mezzo a disposizione se non la banalità e il qualunquismo del punto di vista, e non otteneva altro risultato che confermare il suo oggetto come malvagio e ineluttabile.
Qui il movente non è il male ma il nulla ideologico, un nulla programmatico che si eleva a forma, contenuto, progetto, scopo. La grande bellezza rappresenta il ritorno della “forza prevalente o eccedente dello stile: il neodecadentismo” di cui parlava Pasolini a proposito de La dolce vita.
Ogni singolo “nulla” costituisce un ossimoro, perché esposto come feticcio: le citazioni notturne dell'Antonioni di La notte, del Céline di Viaggio al temine della notte, gli sfoghi pittorici di Pollock e il sempre presente Dostoevskij; il lungo compiacimento sulla performance di Tony Servillo; l'estenuante estetismo e schizofrenico esercizio di stile della regia, le interruzioni, i sospiri e le attese di una grande stagione autoriale del cinema italiano contaminate dallo sperimentalismo kitsch di tanta video-arte, l'odiosa intro, tra omaggio e sberleffo della caleidoscopica sfacciataggine dei video-clip musicali, la disgustosa colonna sonora (il pensiero “quanto fa schifo la colonna sonora” e ecco che ti appare Antonello Venditti), le apparizioni mistiche come tentazioni peccaminose e le tentazioni peccaminose come presenze indifferenti. L'equivalenza del “Roma o morte” nelle case vuote, nei patetici trenini delle feste, nei palazzi pieni di macerie di un glorioso passato, nobili decaduti, funerali, il chiacchiericcio o il silenzio di una verbosità crudele e autolesionista che prova ad elevarsi attraverso il girotondo di un'anima dispersa tra il peccato e l'innocenza, in cui la realtà e le individualità sono apparizioni di natura puramente estetica che scompaiono senza lasciare traccia.
Jep conquista quando è personaggio-divo quel tanto maledetto, mai accomodante e sentimentale, ma dedito alla calma, disimpegnata e sistematica distruzione dell'intellettualismo impegnato e borghese del sottovoce e dell'orrore del linguaggio di parole passepartout, dell'irritante pratica del parlare di sé in terza persona di una performer in cerca di notorietà che non ha bisogno di leggere perché “vive di vibrazioni”. Jep stanca quando si guarda sognare e si sorprende a pensare, annoia quando ammette d'essere annoiato, eccede nell'eccessiva idiozia di feste affatto divertenti e nei melanconici flashback di un amore adolescenziale come luogo della perdita dell'innocenza.


martedì 14 gennaio 2014

Cilento in Mostra


Trentova (Sa) di Francesco Saviano


Il CILENTO DALLA PREISTORIA AL RISORGIMENTO
Una mostra per far emergere le ricchezze del territorio 
8 marzo-31maggio 2014
Fiere di Vallo

In occasione del XV anniversario del riconoscimento Unesco del Parco Nazionale del Cilento Vallo
di Diano e Alburni verrà allestita la mostra-evento “Il Cilento dalla Preistoria al Risorgimento” che si svolgerà dall'8 marzo al 31 maggio 2014 presso le Fiere di Vallo della Lucania in provincia di Salerno. 
La mostra è stata pensata come percorso di valorizzazione e di riscoperta della storia, della cultura, dell'arte e del territorio e sarà corredata da attività didattiche per le scuole, incontri, convegni, presentazioni di libri, visite guidate presso le numerose e preziose realtà micro-museali disseminate sul territorio.
Si partirà dai reperti di epoca giurassica conservati nel Museo di Magliano e di era paleolitica emersi nell'area di Palinuro-Molpa dove è stato scoperto un insediamento di
uomo di Neandertal, ultimo focolaio prima dell'estinzione della specie, per arrivare ai reperti della civiltà eleatica, una delle pagine più importanti dell'evoluzione del pensiero occidentale provenienti non solo da Velia ma anche da Roccagloriosa e Caselle in Pittari, fino a documenti di epoca moderna come l'ordine di arresto di Giuseppe Mazzini e il manoscritto originale della Spigolatrice di Sapri.
Lo scopo sarà quello di fornire un punto di vista diverso sul Cilento, immenso museo a cielo aperto iscritto nella lista del patrimonio mondiale dell'umanità, che non è solo archeologia ma è anche paesaggio, flora, fauna, agricoltura, gastronomia e religiosità.


Primula di Palinuro


La mostra è promossa dalla Banca di Credito Cooperativo Cilento e Lucania Sud, dal Parco Nazionale del Cilento e dal Comune di Vallo della Lucania, ideata da Francesco Castiello e curata da Carla Maurano, in collaborazione e col sostegno della Sovrintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici della Provincia di Salerno. 


venerdì 10 gennaio 2014

CHI SONO | IV


Sono nonno Biagio e il suo bastone che quando chiamava sbagliava sempre nome, sono il suo orto a mangiare noccioline e la sua gamba sempre gonfia in un fosso dietro l'ospedale. Sono via Nigli e “Richetta” e quanto mi voleva bene senza dirlo perché non aveva voce, ritardando la mia che a 2 anni ancora non parlavo con la bocca piena di brodo vegetale. Sono Menotti Grombone l'incendiario e il suo fascismo forsennato provocato dal furore dell'unica avventura vissuta in 96 anni, la guerra d'Albania, la prigionia e il ritorno alla consueta zappa, alle solite amanti e alle solite sigarette sul muretto della Chiesa, ai consueti sogni alimentati da una fantasia inesauribile e geniale, di passeggiate coi morti, gatti che parlano, quadriglie, scongiuri e malocchi alla vista di preti e medici e il rifiuto di togliersi il cappello al passaggio dei signori alla messa della domenica. Sono quella bambina costretta con un sorriso e con un abbraccio a cantare Allarmi siam fascisti e Faccetta nera e messa seduta su uno sgabello ad ascoltare quant'era bello il fascismo e sono quella bambina che in fondo ci provava ad assecondare quel pazzoide e stravagante vecchietto che ubriacava i cani, la persona che in assoluto ha più contribuito alla costruzione del suo antifascismo. Sono il mio bisnonno Michele Di Sevo che pascolò pecore e capre per tutta la vita, che ebbe molte figlie che chiamò a 2 a 2 con lo stesso nome perché era così felice d'esser di nuovo padre che beveva fino a perdere la memoria, che mangiò 3 capretti e bevve 15 litri di vino in una notte e si bruciò un piede nel caminetto mentre dormiva per riscaldarsi in una casetta di campagna, per morirne, poi, senza lasciare traccia: di lui non esistono fotografie, né ritratti, né scritti, infatti non sapeva scrivere. Sono la mia bisnonna Giuseppina, che consegnò un maiale troppo magro al suo “padrone” e fu cacciata perdendo anche i soldi della fune che aveva preso a pegno per trascinarlo, e cavò pietre che poi mi sono cresciute dentro. E sono la mia trisnonna Anna Maria sopravvissuta ai primi 100 anni di vita che perse la ragione e diventò un fantasma passando le ore a chiedere una bara. Sono mia nonna Carolina Rizzo che dormiva con le sue pecore di notte ché da sole avevano paura e che ha vissuto due volte la stessa vita, una coi piedi e con le mani l'altra con la testa. Sono la mia infanzia sotto casa all'Aria re lo viecchio, abitata da fantasmi di camion e roulotte di un'officina, e sono Marisa e Anna e il caffè con l'acqua, sono Diego e il suo odore forte che lo senti da lontano con Pina una corda e un triciclo, sono Damiano, le formiche da inseguire, i ragni da stanare, gli squali da catturare e tutto da sognare, sono quelle cantine piene di roba vecchia in cui andare a scappare dalla paura. Sono l'affetto di Nicola Rocco, sono Zammarrelli e la sua bottega di barbiere e di meraviglie, il bar di Lucia, le estati di tornei di tressette e briscola, le tavolate di 30 persone, gli amici di mio padre, Nicola, Mario e le partite della Roma, la noia delle processioni dei santi e le fughe da scuola sulla Tempetella, sono il mare e le grotte di Ascea con Luca che non rivedrò mai più, sono tutto questo verde e l'emozione di un incontro terrificante con un serpente, sono tutto questo sole, la torre di Velia e l'orizzonte, sono questo spazio vuoto e l'emozione di partire, che vaffanculo tutta quest'aria e questo spazio, sono questo ritorno e quest'attesa di ripartire che non avrà mai fine.  

CHI SONO | III

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Sono la mia bisnonna Giuseppina, che consegnò un maiale troppo magro al suo “padrone” e fu cacciata perdendo anche i soldi della fune che aveva preso a pegno per trascinarlo, e cavò pietre che poi mi sono cresciute dentro. E sono la mia trisnonna Anna Maria che, sopravvissuta ai primi 100 anni di vita, perse la ragione e diventò un fantasma passando le ore a chiedere una bara.





CHI SONO | II


Sono il mio bisnonno Michele Di Sevo che pascolò pecore e capre per tutta la vita, che ebbe molte figlie che chiamò a 2 a 2 con lo stesso nome perché era così felice d'esser di nuovo padre che beveva fino a perdere la memoria, che mangiò 3 capretti e bevve 15 litri di vino in una notte e si bruciò un piede nel caminetto mentre dormiva per riscaldarsi in una casetta di campagna, per morirne, poi, senza lasciare traccia: di lui non esistono fotografie, né ritratti, né scritti, infatti non sapeva scrivere.

CHI SONO | I


Sono Menotti Grombone l'incendiario e il suo fascismo forsennato, ingenuo ed ignorante provocato dal furore dell'unica avventura vissuta in 96 anni, spezzata nel bel mezzo dalla ridicola guerra d'Albania, dalla prigionia e dal ritorno alla consueta zappa, alle solite amanti e alle solite sigarette sul muretto della Chiesa, ai consueti sogni alimentati da una fantasia inesauribile e geniale, di passeggiate coi morti, gatti che parlano, quadriglie, scongiuri e malocchi alla vista di preti e medici e il rifiuto di togliersi il cappello al passaggio dei signori alla messa della domenica. Sono quella bambina costretta con un sorriso e con un abbraccio a cantare Allarmi siam fascisti e Faccetta nera e messa seduta su uno sgabello ad ascoltare quant'era bello il fascismo e sono quella bambina che in fondo ci provava ad assecondare quel pazzoide e stravagante vecchietto che ubriacava i cani, la persona che in assoluto ha più contribuito alla costruzione del suo antifascismo.