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mercoledì 14 dicembre 2011

IL RAGAZZO CON LA BICICLETTA

GRAFFITI SULL'ORFANOTROFIO DI EKANTERINBURGO


IL RAGAZZO IN BILICO
DI JEANNE PIERRE E LUC DARDENNE, 2011
titolo originale: Le Gamin Au Vélo


[Il piccolo Cyril dopo la morte della madre, viene abbandonato dal padre in un istituto. Incapace di accettare la realtà dell'abbandono, il ragazzo fugge continuamente agli educatori lanciandosi nella disperata ricerca dell'uomo, sparito senza lasciare tracce. Seguendo le briciole lasciate dal padre il ragazzo troverà sulla sua strada la fata buona (Cécile De France), la donna per una volta salvifica che gli restituirà la libertà]. 

Il sottotitolo del film poteva essere "Una favola modena", e di certo una favola è nella sostanza, una favola dolceamara alla maniera di Oliver Twist, Tom Sawyer o dei mille protagonisti orfani che popolano l'immaginario delle favole Disney e le innumerevoli storie d'infanzia tradita delle letterature di ogni dove.
Detto ciò e difficile non notare l'attenuazione dei toni di denuncia sociale del cinema dei Dardenne: dopo la "palmata" Rosetta e il bellissimo e inquietante L'enfant, benché appaiano confermate le consuete attitudini all'infanzia, alle criticità della società e delle indagini sul rapporto genitori-figli ci viene data in pasto una lezioncina di pedagogia solo per farci dimenticare che stiamo per essere sbranati dal professore di sociologia. Ci piace sì (maybe). Mi piace il piccolo Pinocchio e la sua fata turchina, mi piace quella naturalezza e quella facilità del racconto e mi aggrada la sottigliezza dei rapporti, soprattutto amo la lucidità con cui si è affrontata l'indagine sociale; è difficile tuttavia dimenticare che siamo nel 2011 e che, in fondo, tutte queste belle cose le sapevamo già; in questo senso, riesce facile anche apprezzare il richiamo al neorealismo e ai Ladri di biciclette di De Sica. La bicicletta del piccolo Cyril campeggia al centro del film dando gli accenti e sottolineando le cadute, apparendo e scomparendo come ad annunciare un cambio di pagina nel racconto: è il simbolo dell'abbandono del padre, che non esita a venderla dopo aver scaricato il ragazzo in istituto, è il simbolo dell'ostinazione del figlio, che non crede il padre capace di tanto, è la bici a permettere l'incontro con Samantha, è ancora la bici a trascinarlo nel bosco e a fornire l'aggancio da parte dello spacciatore; ma è ancora, e soprattutto, il simbolo dell'emancipazione, sebbene passi attraverso strade buie e deserte, vicoli ricchi di tentazioni e sentieri solitari. Non chiediamo di nascere, né quando, né come, ma se ci vengono date delle ruote dovremmo avere la bontà di sfruttarle, perché corri e pedala oggi, chissà, ti dimentichi domani di quanto i genitori sanno essere stronzi.


venerdì 7 ottobre 2011

OFFSIDE: VENGO ANCH'IO!



DI: JAFAR PANAHI - IRAN - 2006


Vincitore dell'Orso d'Argento a Berlino nel 2006, Offside dell'iraniano Panahi compare nelle sale italiane soltanto nel 2011, e in un momento non proprio felice per il suo autore, condannato a 6 anni di carcere nel dicembre del 2010 per opposizione al regime (rilasciato su cauzione nel maggio del 2011). Il film è completamente intriso della personalità politica del suo autore e della sua capacità di tratteggiare la società con un lieve ed efficace colpo d'occhio. Il "neorealista" Panahi contamina film e documentario e gioca con la realtà effettuale come fosse finzione, decidendo di ambientare il suo film nella realtà di una caotica e straordinaria giornata: quella della partita tra Iran e Bahrain, sfida decisiva per le qualificazioni ai mondiali di calcio di Germania 2006. Tutti gli uomini, di tutte le età, sono in fermento, gli autobus corrono verso lo stadio, è un delirio assordante di clacson e di cori dei tifosi immersi in una scenografia di sciarpe, bandiere e cappellini. Ma il vero fermento è sotterraneo, è il "gentile" fermento delle escluse. Una ragazza (mal) travestita da uomo se ne sta in silenzio seduta sul pullman che la porterà allo stadio, questa volta, è convinta, ce la farà ad entrare... correrà il rischio di essere beccata dalle guardie, ma lei lo sa come deve fare, ha sentito di altre ragazze che ce l'hanno fatta. Ma non ce la farà. E come lei anche altre ragazze verranno beccate. Perché le donne in Iran non possono entrare allo stadio, è una questione di buoncostume. Così mentre la realtà della partita fa il suo corso, le sfortunate ragazze, chiuse in un recinto, sono bandite da quella realtà, impossibilitate ad avere un contatto con essa. E insieme a loro lo spettatore. Panahi bandisce dallo schermo le immagini della realtà-partita per mostrare il desiderio di realtà che scuote i corpi e gli animi di giovani tifose, decise ad ascoltare le ragioni di un'esclusione che non riescono a comprendere, ragioni che nessuno è in grado di sostenere con convinzione.
Il calcio ha sempre avuto una certa vocazione "politica", una determinata capacità di assorbire malumori e tensioni, farsi speranza di riscatto da fallimenti pubblici e privati, fornire la giustificazione ad un'amicizia iniziata da 5 minuti o la possibilità di urlare senza sentirsi nevrotici; e non può dirsi un caso che anche qui, si scelga una metafora calcistica per dire di una società, di un sistema, in cui spesso si lotta per le cose più semplici, forse quelle più vicine, più "comprensibili", quelle cose senza le quali si può vivere, ma proprio non si vuole farlo. 



mercoledì 28 settembre 2011

ANOTHER YEAR: BELLEZZA, PRECARIETÀ E TORTURA DELLE RELAZIONI UMANE







DI: MIKE LEIGH - GRAN BRETAGNA - 2011


Mike Leigh ci aveva lasciato con Happy go lucky e la sua frizzante e ottimista protagonista (Poppy), un film che aveva suscitato un entusiasmo che non ho potuto pienamente condividere. Un andamento piatto, un fare svogliato e una direzione inconcludente sono elementi soltanto parzialmente controbilanciati dal realismo della narrazione e da personaggi ben congegnati. Nel film del 2008 è possibile intravedere un prezioso antecedente a questo nuovo lavoro di Leigh, in cui ritroviamo il medesimo interesse per una ricerca minuziosa sulla natura umana e le forme che essa assume nel "sociale". Another year è tutto costruito sulla pacata coppia di sessantenni Tom e Jerry, ingegnere geologo lui, psicologa lei, messi al centro a fare da pilastri ad una strampalata galleria di personaggi disperatamente "scoppiati". Si comincia con la tenera vecchietta insonne (Imelda Staunton, gVera Drake) a causa di una vita inaridita di sentimenti e di volontà; un personaggio "da fare" perché lasciato lì, al principio del film, a fare da prologo. Un prologo che sembra recitare: "una paziente che chiede aiuto sta ad una psicologa come un amico in difficoltà sta ad un amico con una vita perfetta". Si parte con la nevrotica, logorroica e infantile passaguai Mary, collega di Jerry, single con il vizio dell'alcool, versione femminile del vecchio amico di Tom, Ken, timido e pacato, tabagista acciaccato logorato dalla solitudine. Si prosegue con i parenti di Tom: il fratello Ronnie, tenero e silenzioso, colpito dalla perdita della moglie e suo figlio dall'ingestibile aggressività. Per loro nulla va come dovrebbe andare, per loro l'appartamento di Tom e Jerry è un rifugio in cui trovare riparo e qualcuno con cui parlare. La disperata ricerca di un contatto, di un confronto, e di una partecipazione ad una vita che non si avrà mai, porta Mary a camminare sempre in quella direzione, a sognare una amore "proibito" con Joe, il figlio di Jerry e Tom. Come in Happy go lucky, essere felici porta fortuna, ma qui, a differenza della sincera bonarietà di Poppy, c'è dell'amaro nella supponenza con cui Tom e Jerry usano i loro amici "sfigati" come simpatici pupazzi di autocompiacimento per guardare una volta chiusa la porta, di sera, alla loro perfetta famiglia da cartolina. Un film bellissimo, al di là che voi decidiate di stare con i buoni o con i cattivi, con i vincenti o con gli sfigati, qualsiasi cosa significhi. 

E quando un film ti è piaciuto così tanto è difficile non cedere alla tentazione di dare un voto: 8/10

martedì 27 settembre 2011

CARNAGE: UN DRAMMA BORGHESE


DI: R. POLANSKIFRANCIA, GERMANIA, POLONIA, SPAGNA, 2011
Sembra quasi si tratti del piatto di un grande chef, la sua ultima invenzione. Gli ingredienti sono perfetti: cast di altissimo livello (Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly), una solida sceneggiatura tratta dalla pièce teatrale Le dieu du carnage della drammaturga francese Yasmina Reza, il ridondante "nome" del regista Polanski, la presentazione al Festival del cinema di Venezia...
Tutto inizia per la più grande di tutte le banalità, la lite tra due ragazzini al parco: uno dei due viene colpito al volto con un bastone riportando delle ferite alla bocca e ai denti. I rispettivi genitori raccolti in un appartamento per discutere pacificamente sul da farsi, si "intrappolano" reciprocamente in questo ambiente claustrofobico, sabotando ogni tentativo di "uscita". Il contegno e la messa in scena iniziale delle due coppie vanno in una direzione chiaramente esplosiva: la torta, i tulipani, i libri d'arte ben in vista, l'ostentazione di un successo professionale come avvocato eticamente discutibile; tutto contribuisce a generare un ambiente nauseante che sfocia nel vomito (collettivo) di una grande Kate Winslet. Le due coppie saldamente contrapposte in apertura, iniziano ad essere "mosse" sulla scacchiera da una mano invisibile, che mischia i colori e le posizioni, trasformando la guerra di famiglia e di classe in guerra di genere e di nervi, fino a far saltare qualsiasi possibile alleanza, qualsiasi tipo di accordo, per trasformare questo dialogo perenne, questo gioco al massacro in guerra di tutti contro tutti, compresi se stessi. Tutto molto bello, e tutto già presente, già sviluppato, nello psicodramma della Reza.
Ed è qui che sorge il mio dubbio. Dov'è il film? Che cosa stiamo vedendo? Uno spettacolo teatrale portato sugli schermi per tutti gli spettatori pigri che non hanno avuto voglia/piacere/soldi per andare a teatro? Il cinema come sorta di discount per il consumo massmediatico di quanto di buono viene scritto e rappresentato? Sì, il piatto sarà stato anche ben presentato, ma viste le premesse e visti i mezzi il risultato non è un granché.

lunedì 26 settembre 2011

E A PROPOSITO DEL CINEMA TURCO: "INCROCIO" DI SEMIH DEMIRDElLEN

Non c'è alcun dubbio, la cinematografia turca possiede una carica di originalità ancora tutta da scoprire. Fatta eccezione per il celeberrimo Ferzan Özpetek (autore più italiano che turco, in quanto, sebbene nato in Tuchia, ha costruito la sua intera carriera nel bel paese) negli ultimi anni altri interessanti autori - vedi Fatih Akin de La sposa turca e Soul Kitchen, Tevfik Baser di 40 mq di Germania - si sono imposti sugli schermi italiani e non solo aprendo una breccia su un panorama cinematografico a lungo rimasto sepolto. Ma non basta. Proprio in occasione di "Mamma li turchi", sorta di missione "archeologica" finalizzata alla "scoperta" della "scena" turca, ho avuto modo di assistere alla proiezione di Incrocio di Semih Demirdelen, classe 1969, al suo primo lungometraggio, in cui è autore anche della colonna sonora. 
Guven è un bonario contabile, attaccatissimo a sua figlia e a sua moglie le quali campeggiano in una bella foto sulla scrivania del suo ufficio. Le giornate di Guven sono tutte uguali, maniacalmente scandite da azioni inevitabili e necessarie per tenere insieme i pezzi di un precario equilibrio mentale: Sveglia, lavoro, la telefonata delle 16:00 della figlia, un taxi per tornare a casa, una cena riscaldata e una tv accesa in salotto vuoto. Una collega, Arzu, arriva a sconvolgere questa macchina perfetta (?). La donna insiste per accompagnarlo a casa, inizia pian piano a fare domande, e spinta dalla curiosità arriva a trasformare i suoi dubbi (e quelli dello spettatore) in certezze: Guven è solo. E come scopriremo solo nel finale Arzu non è spinta da un vago piacere ad "impicciarsi", ma attraverso la triste storia di Guven - a cui la sua è tragicamente legata - la donna può ripensare alla propria di vita coniugale e familiare, ancora recuperabile. 
La vita "quadrata" costruita da ciascuno dei protagonisti del film è il frutto di un sistema corrotto da virus: incontriamo il proprietario dell'appartamento di Guven, che terrorizza la moglie e picchia una figlia adolescente, un uomo che ci sembra disprezzabile senza appello, prima di scoprire la sua sofferenza per condizioni economiche disperate e un assassinio che pesa sulla coscienza di ex militare; e incontriamo il silenzioso giovane collega di Guven, l'ultimo a lasciare l'ufficio di sera, che deruba la sua azienda, ma per pagare le spese mediche di una sorella gravemente malata. Tutti i personaggi cercano di sopravvivere come monadi, come nell'oscurità di un incrocio notturno ciascuno cerca di nascondersi allo sguardo altrui, spiandolo, salvo distrarsi e scontrarsi con essi, scoprendo il bisogno di uno sguardo amico.



mercoledì 21 settembre 2011

AGENDA: MAMMA LI TURCHI



In partenza domani a Roma e fino al 25 settembre il Film Festival Turco di Roma sotto il patrocinio del Ministero della Cultura e del Turismo Turco presieduto da uno dei registi turchi più amati nel mondo: Ferzan Ozpetek. Il festival prevede la presentazione di trenta pellicole (lungometraggi, cortometraggi e documentari) di autori affermati come Yavuz Turgul, e di autori   giovani ed emergenti. Dove? Alla Casa del Cinema/Villa Borghese (Ingresso da Piazzale del Brasile). Per avere il programma dettagliato collegarsi al sito:
http://www.casadelcinema.it/resources//Zetema/rassegne/mamma%20li%20turchi/RTFF_programma.pdf

mercoledì 14 settembre 2011

SINGOLARITA' DI UNA RAGAZZA BIONDA



di: M. DE OLIVEIRA.
PORTOGALLO, SPAGNA, FRANCIA, 2009.

La nostalgia del Portogallo si è fatta avvertire immediatamente. Sono tornata solo da pochi giorni, abbastanza per rincorrere il recente e piacevole ricordo di una terra sognante.
Andiamo al cinema...cosa andiamo a vedere? La coincidenza era inquietante e impossibile non assecondarla! C'è Singolarità di una ragazza bionda di Manuel de Oliveira, il maestro portoghese, classe 1908, c'è un treno che va verso l'Algarve, c'è Lisbona...
Spesso la magia del cinema risiede nella sua capacità di trasportarti nell'ignoto, di farti viaggiare attraverso terre, popoli e persone sconosciute, più o meno comprensibili. Ma non sempre l'ignoto riesce a superare il fascino di ciò che è noto, di ciò che si vuole (ri)vedere e (ri)vivere.
Un uomo, Macàrio (Ricardo Trepa) si innamora perdutamente di una ragazza bionda. In principio è un sogno più che una realtà: è solo un'immagine che di tanto in tanto compare nella cornice di una finestra aperta, è una bellissima donna con un bellissimo ventaglio cinese. L'uomo è folgorato: deve sposarla. Ma non ha il permesso dello zio/datore di lavoro, e viene licenziato. Non ha dunque una posizione economica adeguata per affrontare un matrimonio. Si sottoporrà con caparbietà molteplici difficoltà per poter sposare una donna che in realtà non conosce affatto, e pagherà a sue spese questa sua ostinazione.
Un curioso piccolo film (dura circa 60 minuti) in qualche modo sorprendente nel finale. Un film che mi parla dell'ingenuità degli uomini, della loro passione per la bellezza, e dell'incapacità di vedere un cuore e un'anima umana dietro un bel viso. Un bel ventaglio non può essere un motivo sufficiente per innamorarsi. E il contrappasso nel finale è ciò che l'uomo merita per aver ridotto tutto ad una questione economica, ad un'ossessione di ricchezza.

mercoledì 25 maggio 2011

CINEMA ITALIANO: CHI SIAMO, DA DOVE VENIAMO, DOVE ANDIAMO


Assistiamo da anni, increduli e rassegnati, al declino della nostra gloriosa tradizione cinematografica, una tradizione popolata da attori di talento e fama internazionale, che ha permesso a grandi capolavori di vedere la luce, a grandi registi di esprimersi tra interessi sperimentali e realistici. Le poche cose d'interesse prodotte dal nostro cinema recente non sono che eccezioni in un panorama delirante di commediole e psicodrammi col solo pregio di far respirare le sale cinematografiche altrimenti deserte. Eccezioni che si incamminano nel pericoloso campo minato del "Cinema" con l'assicurazione furto e incendio: un attore feticcio, una citazione felliniana, una visione neorealista, elementi non casuali, che in modo o nell'altro rappresentano la nostra storia cinematografica, quella specificità italiana che sembra smarrita. Il cinema italiano, ora alienato da se stesso e dal mondo, ha avuto con il neorealismo a attraverso il suo superamento, il suo centro e il suo laboratorio: il 1936 può essere considerato come l'anno zero del cinema italiano, l'anno di fondazione della rivista «Cinema». Intorno ad essa si erano raccolti un gruppo di giovani antifascisti che avevano iniziato a far confluire nella “leggerezza” delle pagine di una rivista di cinema un discorso culturale e politico. È dalle pagine di «Cinema» che si assiste alla messa in discussione del tradizionale modus operandi dei cineasti italiani, all'individuazione di una nuova esigenza imposta dalla situazione storica. Sotto i contraccolpi della crisi economica mondiale il regime fascista incrementa l'indirizzo dirigista e l'ideologia colonialista, sigillata dall'avventura etiopica, mentre si assiste all'ascesa del nazismo in Germania, e a derive dittatoriali generalizzate. Il 1936 è anche l'anno della guerra civile spagnola, che si protrarrà per tre anni, una sorta di prova generale del secondo conflitto mondiale. In questo fosco contesto il cinema si mostra follemente spensierato: la maggior parte dei film prodotti tra il 1935 e il 1940 sono favole comico-sentimentali completamente aliene dalla realtà e da qualsivoglia inquietudine sociale o politica. Per quanto la realtà venisse esiliata, per quanto si disinfettassero i set da problemi e preoccupazioni, questa spensieratezza (sigillata dalle denominazioni locali “Telefoni bianchi” in Italia, “Comédie mondaine” in Francia, “Light comedy” in Gran Bretagna, fino all'estensione del termine “bianco” a tutta la cinematografia del tempo) lascia emergere la drammaticità della situazione storica rendendo lo schermo cinematografico specchio della schizofrenica e delirante realtà sociale. L'intrigo, gli inseguimenti, i colpi di scena, i litigi, le agnizioni, quasi sempre incentrati su una coppia, location per lo più borghesi e preconfezionate, e l'immancabile happy ending, sono gli elementi che concorrono a delineare un quadro di inquietante spensieratezza, che non poteva non scatenare presto o tardi il disgusto degli stessi operatori dello spettacolo. A completare il quadro il filone bellicistico, nazionalistico e di propaganda. I pochi cineasti italiani non infettati dalla moda dominante iniziano a guardarsi intorno, lasciandosi affascinare in particolar modo dal cinema francese dei Renoir e dei Carné, un cinema intriso di letteratura e versimo. Il cinema inizia a prendere atto del proprio potere, delle potenzialità di analisi sulla realtà storica possibile solo attraverso una rivoluzione interna, attraverso la soggettistica, ambientazione, messa a punto del personaggio, l'abbandono di vizi consolidati che facessero del cinema un mezzo artistico e uno strumento critico, sguardo al di sopra della retorica di regime. Si apriva così un laboratorio sulle possibilità del cinema di avvicinarsi alla vita reale, delle città reali, per le persone reali. Al centro di questo discorso culturale la lezione di Giovanni Verga. La cerchia di «Cinema» se ne occupa approfonditamente cercando di stabilire nel “padre” del Verismo italiano il referente necessario per una riforma cinematografica. La lezione di Verga viene assunta come punto di riferimento per la realizzazione di una sorta di movimento d'avanguardia che sancisce un legame indissolubile tra cinema e letteratura con il conseguente abbandono di soggetti cinematografici codificati e accondiscendenti nei confronti del pubblico, nonché inerti nei confronti del presente storico; attraverso un rinnovato interesse per le fonti storiche e per le grandi opere letterarieattraverso un cinema “nomade” e non più “sedentario” - che non varca mai la soglia dei teatri di posa - che metta al centro il vero paesaggio italiano e l'uomo italiano in carne e ossa, ricomponendo l'uomo-frammento, riempito di sentimenti, di ossessioni, in un mondo da riempire per uscire dal decorativismo. la riforma investe anche questioni strutturali, estetiche e tecniche, che provano a traghettare l'insegnamento di Verga anche su problemi di linguaggio. La questione del verismo diventa cruciale per il cinema, strumento di ripresa diretta della realtà che dal giorno della sua nascita ha compreso che il proprio scopo, la propria destinazione era idealmente quella di “mettersi a raccontare novelle”, prendendo così fatalmente la via del naturalismo. Debenedetti indica questa via fatale per il cinema e insiste sulla necessità di chiarire l'equivoco del passivo occhio fotografico, perché naturalismo è poesia e non cronaca impassibile registrata meccanicamente. Non si tratta tanto di riferirsi alla realtà realizzando strategicamente dei film storico-sociali propriamente detti, ma si tratta di perseguire la definizione, la messa a punto di uno stile che superi e smascheri l'ipocrisia del mondo ovattato, mai problematico, messo in scena dal cinema. 


venerdì 20 maggio 2011

ALLONSANFAN


DI PAOLO E VITTORIO TAVIANI
ITALIA, 1974

1974|1816. Fulvio Imbriani, intellettuale aristocratico affiliato alla setta dei "Fratelli Sublimi" viene rilasciato dopo un periodo di detenzione. Fa ritorno nella villa di famiglia dove ritrova la sorella, i nipoti, la sua compagna, Charlotte, l'amore mai coltivato per il figlio, scoprendosi innamorato di questa dimensione "domestica", lontano dalla lotta politica e rivoluzionaria. Ma i "fratelli" attendevano con ansia il giorno della sua scarcerazione, per realizzare la tanto sognata spedizione di liberazione del meridione. Ma Fulvio è disilluso, "guarito" dal virus dell'utopia e della rivoluzione, prova per i "fratelli" un odio quasi fisico, cerca di liberarsene, non esita a tradirli, a sabotare le loro iniziative, a provocarne la morte. Ma essi non dubitano della sua fedeltà alla causa, non cedono all'avversità del fato; idealisti e ingenui rivoluzionari procedono con il passo del "salterello" fino al tragico epilogo.

Un film sul risorgimento? Non proprio...Un film storico? Non esattamente...
Non è la rappresentazione di un episodio storico preciso che ispira i fratelli Taviani, ma la messa in scena di uno scontro tra pubblico e privato, tra un sogno collettivo a lungo condiviso e la stanchezza del singolo, caduto sotto il peso delle difficoltà e dei risultati mai raggiunti.

"A me la vita è data una volta sola e non voglio aspettare la felicità universale"

Non sono i fratelli sublimi a crollare sotto il peso dei bastoni dell'ignoranza, la loro opera, quel sogno, troverà ancora qualcuno disposto ad abbracciarlo. Ma quel sogno dovrà essere trasportato nella realtà, nella storia, affinché la lotta non si perda nel vuoto.
Fulvio possiede una lucidità agli altri estranea, sente che quella è una lotta fuori dal tempo, una lotta che arriva troppo tardi o troppo presto:

"Ma dove volete andare così mascherati? Sono venti anni che andate, venite, vi mascherate; che corriamo dietro a faville che sono soltanto cenere!"

I Taviani suggeriscono una mediazione tra la collettività e gli interessi del singolo, una sintesi degli elementi dialettici della storia, applicabili al passato quanto al presente della nostra storia nazionale.

venerdì 28 gennaio 2011

QUALUNQUEMENTE - EFFETTO BOOMERANG




DI: GIULIO MANFREDONIA - ITALIA - 2011


Era una piovosa serata di gennaio...non molto distante per la verità dalle sfavillanti serate natalizie trascorse sulla scia dell'allegrezza e della giovialità da cinepanettone; serate che mi sono sempre ben guardata dal trascorrere. Eppure sono riuscita ad abbassare la guardia, e fatalmente pagare un cifra tutt'altro che modica per l'ultimo film di (con) Antonio Albanese. Un film di Natale con ambizioni moralistiche, chi l'avrebbe mai detto! Un film ben congegnato, esteticamente piacevolissimo, divertente, a tratti esilarante. Tralasciando il celeberrimo personaggio di Cetto e la sua celebrazione del maschio medio in Italia, vorrei concentrarmi su dettagli secondari che sono ciò che dà sostanza al film, tutto ciò che è stato costruito intorno al preesistente protagonista. Ambientazioni tipicamente meridionali, riprese dai quaderni delle elementari di qualche fondamentalista padano, quasi da manuale: l'incendio, il traffico sulla Salerno-Reggio Calabria, la sfarzosa villa (questa ripresa forse dalla divagazione interior design di Gomorra), il sito archeologico smembrato per far posto ad un camping, l'abusivismo edilizio, la scena dello shock provocato dalla richiesta della fattura fiscale (devo ammettere tra le mie preferite), i brogli elettorali. Donne (e relativi seni) bellissime, deretani ben inquadrati, oche scalmanate senza coscienza, urlanti incapaci di esprimere un concetto di senso compiuto; la moglie che non proferisce quasi parola se non fosse per il suo leitmotiv "Buttana", l'amante che viene presa e portata via da chiunque lo desideri;
ma tutto questo non è soltanto l'ingenua e un pò folcloristica via per rappresentare la realtà, tutto questo non ha nulla di ingenuo, ma è ciò che in Italia si fa da sempre di fronte alla tragicità della società, alla corruzione della politica, di fronte alla violenza del rapporto che la società ha con le donne, e con qualsiesi senso di giustizia. Questo modo di rappresentare fatti e problemi che nella realtà sono inquietanti e drammatici, facendoli diventare momenti gioviali, corrisponde all'esorcizzazione, all'espiazione. La forma corrisponde al contenuto. La banalità regna sovrana. La scorrettezza politica e la misoginia sono l'apparato cardiocircolatorio, il qualunquismo è il sistema ideologico adottato per osservare e rappresentare la realtà. E così che il cinema italiano intende esprimersi sulla storia? Il fallimento del film risiede in questa incapacità degli autori di vedere in questo prodotto non un risultato innovativo e brillante (come non si stancavano di sottolineare nelle numerose presentazioni che ne hanno preceduto l'uscita), ma l'inadeguatezza del "genere" cinematografico prescelto ad esprimere un punto di vista lucido e rivoluzionario sulla storia.

Postilla*1: Il momento migliore è rappresentato dal personaggio di Melo, in cui si intravede anche il senso di estraneità della figura del giovane (inteso come categoria sociale ancora non macchiata dalla corruzione). Ma sul finale del film scopriamo che Melo è stato un pretesto per suscitare ilarità, il suo personaggio viene "buttato via", per adeguarsi all'andamento generale, e al punto di vista paterno.

Postilla*2: L'episodio più amaro, i brogli elettorali. Come dire "tutti assolti", eccetto una oligarchia di politici corrotti verso i quali l'unica azione possibile è la contemplazione compiaciuta. Il pubblico non avrà niente da rimproverarsi. Ecco l'aureola posta sul capo dell'elettore "qualunque".

Ma la domanda è, cosa c'è da ridere?

giovedì 20 gennaio 2011

AGENDA: MY FRENCH FILM FESTIVAL






Ecco un'iniziativa da non perdere, un festival del cinema virtuale!
I edizione dal 14 al 29 gennaio 2011


MyFrenchFilmFestival.com è un nuovo concetto, una nuova maniera di condividere la vostra passione per il cinema francese con gli internauti di tutto il mondo. Per la prima volta un festival interamente virtuale vi permette di votare per il vostro film preferito. Non esitate a fare sentire la vostra voce !