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martedì 20 maggio 2014

Tina Modotti: Perché non muore il fuoco


TORINO // TINA MODOTTI// UNA RETROSPETTIVA

[Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini || Udine, 17 agosto 1896 || Città del Messico, 5 gennaio 1942]

Alla Corte Medievale di Palazzo Madama un appuntamento con Tina Modotti, la fotografa italiana a lungo dimenticata: operaia, emigrante, attrice, modella, antifascista, garibaldina di Spagna è tra gli artisti militanti più importanti del XX secolo. Sarà visitabile fino al 5 ottobre la retrospettiva a lei dedicata Perché non muore il fuoco che ripercorre tutte le fasi della sua esperienza di fotografa, dai primi scatti come modella negli anni '20, passando per l'impegno politico e sociale in Messico, fino alla fase Europea degli anni '30. Il percorso espositivo inizia con un sistema di specchi in cui Tina Modotti si trova dall'altra parte dell'obiettivo fotografico in qualità di attrice di Hollywood: dopo il matrimonio con il pittore "Robo", si trasferisce a Los Angeles dove inizia a recitare in una filodrammatica di italiani, ottenendo subito dopo l'ingaggio per il ruolo di protagonista nel film "The Tiger's Coat" di Roy Clemens. Ma è una carriera breve, una strada interrotta da un'altra passione, quella per la fotografia, maturata attraverso la relazione con l'amico e futuro compagno Edward Weston in seguito al trasferimento in Messico dove resterà per circa 10 anni, fermando, temporaneamente, la propria tendenza al nomadismo. A questo periodo appartengono gli scatti di Tina come modella e musa: sono scatti che la ritraggono nuda e bellissima, mentre piange o ride e mentre recita poesie per strada. Nella fase successiva del percorso espositivo Tina si trasforma da soggetto osservato a soggetto osservante attraverso un naturalismo astratto che è impressione del mondo sistemata all'interno di un ordine metafisico: dalle celeberrime calle, passando per lo studio del progresso tecnico e dell'estetica contemporanea, fino alle impressioni della realtà che iniziano a focalizzarsi sulla questione operaia ricercando nel paesaggio la presenza del proletariato. In Messico Tina definisce la propria arte fotografica in uno stile derivato dalla sintesi di elementi estetici e politici.
Nel 1927 si iscrive al Partito comunista messicano, entra in contatto con Diego Rivera, David Alfano Siqueiros e Clemente Orozco, membri del sindacato artisti fondatori del giornale El Machete; prende parte insieme a Frida Kalho e Diego Rivera al comitato per Sacco e Vanzetti,  partecipando alle dimostrazioni in loro favore. Risale a questo periodo l'incontro con il segretario del partito comunista cubano Antonio Julio Mella, che sarà assassinato davanti ai suoi occhi un anno dopo, nel 1929. A questa fase artistica appartengono le opere di maggiore impegno politico che portano Tina alla raccolta della quint'essenza della lotta politica messicana: il sombrero, le mani dei lavoratori, gli scaricatori, la bandiera, la chitarra, la pannocchia, la cartucciera [Illustration for a mexican song] gli scioperi, le folle, la povertà, i morti, sono i segni della realtà che oscilla tra la poesia, la bellezza e l'orgoglio del popolo messicano. 
Spiega così Tina Modotti, tutta la potenza del mezzo fotografico e tutto il senso della sua arte.
Niente è più convincente ed espressivo di ciò che si può vedere con i propri occhi. Sebbene si possa eccellentemente descrivere un attacco della polizia armata a una manifestazione operaia, un corpo di un operario calpestato dalla polizia a cavallo o un negro linciato da un brutale sanguinario carnefice, mai un'immagine disegnata, in forma verbale o scritta sarà convincente quanto può esserlo la riproduzione fotografica. Il fotografo è il più obiettivo dei grafici. Riprende soltanto ciò che, nell'attimo dello scatto, si presenta al suo obiettivo. E un'immagine fotografica è comprensibile in tutti i paesi, da tutte le nazionalità, come anche il cinema (le "immagini vive"), nonostante la lingua, il titolo o le spiegazioni. [Tina Modotti, A.I.Z., n. 3, Berlino 1932]. 
Ma gli anni '20, intensi, ispirati, sono solo una parentesi di un'intera vita dedicata alla ricerca e alla lotta. Negli anni '30 la Modotti fa ritorno nella sua Europa, stabilendosi dapprima a Berlino, provando ad inserirsi nel mondo del fotogiornalismo, per decidersi, invece, ad abbandonare la fotografia per la lotta politica: sarà instancabile attivista del Soccorso rosso internazionale in Russia prima, garibaldina di Spagna poi, combattente delle Brigate internazionali durante la guerra civile spagnola. Morì sola, a Città del Messico, il 5 gennaio 1942 colpita da un infarto mentre si trovava in un taxi che la stava riportando a casa.


Tina Modotti è morta di Pablo Neruda:

Tina Modotti, sorella non dormi, no, non dormi:
forse il tuo cuore sente crescere la rosa 
di ieri, l'ultima rosa di ieri, la nuova rosa.
Riposa dolcemente sorella.
La nuova rosa è tua, la nuova terra è tua.
Ti sei messa una nuovaveste di semente profonda, 
e il tuo soave silenzio si colma di radici.
Non dormirai invano, sorella.
Puro è il tuo dolce nome, pura la tua fragile vita:
di ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma,
d'acciaio, linea, polline, si è fatta la tua ferrea,
delicata struttura.
Lo sciacallo sul gioiello del tuo corpo addormentato
ancora protene la penna e l'anima insanguinata
come se tu potessi, sorella, risollevarti
e sorridere sopra il fango.
Nella mia patria ti porto perché non ti tocchino,
nella mia patria di neve, perché alla tua purezza
non arrivi l'assassino, né lo sciacallo, né il venduto:
laggiù starai tranquilla.
Non odi un passo, un passo pieno di passi, qualcosa
di grande dalla steppa, dal Don, dalle terre del freddo,
non odi un passo fermo di soldato nella neve?
Sorella sono i tuoi passi.
Verranno un giorno sulla tua piccola tomba
prima che le rose di ieri si disperdano,
verranno a vedere quelli di una volta, di domani,
là dove sta bruciando il tuo silenzio.
Un mondo marcia verso il luogo dove tu andavi, sorella.
Avanzano ogni giorno i canti della tua bocca
nella bocca del popolo glorioso che tu amavi.
Valoroso era il tuo cuore.
Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade
polverose, qualcosa si mormora e passa,
qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo,
qualcosa si desta e canta.
Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome
quelli che da tutte le parti, dall'acqua e dalla terra,
col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo.
Perché non muore il fuoco.

[Messico, 1942]



venerdì 16 maggio 2014

Cadrò.

Alfonso Gatto a lezioni di bici da Fausto Coppi.

"La voce che io non so andare in bicicletta ha fatto il giro della carovana. Quando siamo in corsa non è male che Leoni mi sfreccia vicino facendomi l'occhietto, io cerco di sorridergli, ma quando lui è passato mi mordo le unghie per la vergogna. Credevo di trarre vantaggio dalla mia posizione, ora mi accorgo che la popolarità di cui godo è proprio il prezzo del disonore. Perfino i ragazzi all'arrivo mi aspettano per indicarmi: faccio finta di non sentire, ma le loro parole mi restano nell'orecchio e mi fanno arrossire anche quando dormo. "Sembra un vecchio campione" dicono "ed è soltanto un posa-piano. Lui a casa ha il triciclo" e via di questo passo. Hanno ragione. In bicicletta vanno tutti, le donne e i bambini, i preti e i soldati. Io soltanto no.

Coppi, che un è buon ragazzo, mi si avvicinato stamane mentre andavo al bagno e mi ha detto: "Perché non cerca di imparare? Se vuole, al pomeriggio le insegnerò io". Ho cercato di rispondergli: "Si immagini quale onore è per me; ma è come se un bambino che deve frequentare la prima classe abbia per maestro un professore d'Università". "Comunque, se vuole, dopo colazione vengo a prenderla in albergo. A quell'ora non ci sarà nessuno e troveremo una via deserta per gli esercizi". Alle due ero ad aspettarlo. Fausto è venuto in pantaloncini corti e si è incamminato con me. Strada facendo abbiamo parlato di tante cose, dei ricordi in comune che incominciavamo ad avere delle nostre famiglie, senza deciderci tuttavia ad incominciare. "Mi dica un po', come ha fatto a non salire mai su una bicicletta nemmeno da ragazzo?" mi ha chiesto ad un certo punto rimanendo col naso arricciato come sua abitudine. "E' molto semplice - ho risposto - non sono mai riuscito a stare in equilibrio più di un secondo, ed ho provato, sa, non creda che me ne sia stato con le mani in mano. Non ci riuscirò mai. Lei è per me come il gran medico che le famiglie chiamano solo quando il malato e bell'e spacciato".

"Proviamo", ha detto Coppi tagliando corto. Eravamo in una via deserta lungo un muro. Fausto si è messo in posizione reggendo la bicicletta. Mi sono issato in sella con molto sforzo e balbettando scuse incomprensibili. "Pedali forte, guardi davanti a sé". Le solite parole che dicono tutti. Anche Coppi non poteva che ripeterle. Che se ne fa della sua scienza un filosofo che sia costretto ad insegnare le aste ai bambini? "Pedalare forte". E presto detto, ma come? "Più forte, più forte - sibilava fra i denti Coppi che già incominciava a disperare - . Tenga il manubrio leggero, non guardi la ruota...". Quante cose da non fare in un momento? "Scendo - supplicavo - mi lasci scendere".

Per un attimo ho provato la dolcezza del volo, sapendo di cadere ed ero già caduto nella polvere come un guerriero antico. Coppi da lontano scuoteva la testa, con le mani puntate sui fianchi. Decine di curiosi erano affacciati dal muro, che prima sembrava dividesse il deserto e non si azzardavano nemmeno a ridere per la soggezione di vedersi Coppi davanti con l'aria del maestro. Non sapevo dove nascondere la faccia, mi veniva da piangere. "Ma io so nuotare - ho cercato di spiegare a Coppi e agli altri, accompagnandoli all'albergo - da ragazzo mi battevo per i trenta metri". Le mie parole sono cadute nel vuoto.

Ora sono chiuso in camera e sul mio diario vado scrivendo tristi pensieri e un triste proposito. Intanto tutta la città parla e sparla di me, i miei colleghi non sanno come comportarsi. Ma di una cosa sono certo: che se io sapessi andare in bicicletta sarei un campione. E' ridicolo che ci si serva di quella macchina da angeli per camminare come fanno tutti.

Cadrò, cadrò sempre fino all'ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare."


Alfonso Gatto, 6 giugno 1937

giovedì 8 maggio 2014

ITALIA O MORTE

Non dirmi che hai paura
di: Giuseppe Catozzella
[Feltrinelli, 2014]
Tra i dodici finalisti del PremioStrega.


Non capita tutti i giorni, a una vecchia cinica quale sono, di addormentarsi con la rabbia nel cuore, quello stesso cuore abitato da un disprezzo troppo solido, troppo pietrificato, per riuscire ancora a esprimersi in commozione. È il regalo che il tuo paese ti ha consegnato quando non eri già più bambina, quando la vita ti aveva detto altro e i sogni non erano già più disposti al compromesso. Il mio futuro è stato sempre tacitamente immaginato come qualcosa di già scritto: per quanti danni, errori e indolenza potessi aggiungere a quel disegno, sarebbe stato una passeggiata in discesa che conduceva a un lavoro a una casa, a un punto interrogativo che non poteva far paura. Tutto andrà bene. E sì, ancora ce lo diciamo, con le incazzature, gli strappi e le delusioni, i sacrifici che non portano a nulla, sì, tutto andrà bene. È il prezzo del benessere. L'illusione della resistenza del benessere è il prezzo che paghiamo per un'esistenza sottoposta al dominio di interrogazioni strutturali elevate a sistema. Così pensi di andar via, di mollare tutto, di tanto in tanto qualcuno ti suggerisce di partire, che chi te lo fare di stare qui. Così leggendo di Samia, pensi al suo di viaggio, e pensi ai suoi di sogni. Pensi che sei malata di occidentalismo e di rassegnazione con storia di Samia che è tutta lì nelle tue mani, tra le pagine del libro troppo breve Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella, pensi alla sua vita che non puoi cambiare, ma che il tuo paese avrebbe potuto salvare e che, invece, ha lasciato che sprofondasse sul fondo del mare insieme ai suoi sogni.
Samia è stata un'atleta somala, nata a Mogadiscio nel 1991 e morta il 2 aprile del 2012, inghiottita  dal mar Mediterraneo, al largo di Lampedusa, mentre cercava di raggiungere le funi lanciate da un'imbarcazione italiana. Soltanto quattro anni prima Samia rappresentava il suo paese alle Olimpiadi di Pechino del 2008, nei 200 metri, raggiungendo il record personale di 32''16 che le valse ugualmente l'ultima posizione della sua batteria. Samia non era una professionista: si presentò alle Olimpiadi denutrita e atleticamente impreparata, ma corse la sua gara con orgoglio nonostante le grida di incitamento del pubblico le dicessero che era ultima, che aveva catturato l'attenzione del pubblico in quanto ultima, in quanto la sua era la storia perfetta per i palati degli occidentali e per i loro ipocriti sentimentalismi. Ma lei voleva vincere per il suo paese, tornare nel suo paese, riscattare la Somalia per suo padre e per sua sorella e per tutti quelli che alla Somalia non erano sopravvisssuti. Si allenava di notte, nel buio del burqa, per le strade di Mogadiscio, correva tra i miliziani; ma il suo paese non la vedeva mentre correva e alla fine Samia decise di partire: avrebbe partecipato alle Olimpiadi di Londra. Attraversò mezzo mondo su una jeep, attraversò la galera, la disperazione, la malattia, attraversò il deserto e infine vide il mare. Si potrebbe credere che la morte di Samia possa essere stata un espediente per affermare che le migliaia di vittime del Mar Mediterraneo non sono tutte uguali, perché la sua di morte, la morte di un'atleta olimpica, sarebbe una morte particolarmente tragica. Ma no, non è questo. Catozzella non ha costruito una favola del nostro tempo, ma si è limitato a raccontare  una storia che se ha dell'esemplare è soltanto per la sua natura trasversalmente agghiacciante. Lo sai sin dall'inizio che Samia non si salverà, sai che il suo sogno di correre libera e nuotare in quel mare che le è stato vietato sin da quando era bambina, potrà realizzarsi soltanto nella morte. E sai che la morte di Samia, e delle altre migliaia di vittime del Mediterraneo ricade sulla testa del tuo paese, sottoscritta dall'indifferenza del tuo vicino di casa e dalla casalinga di Voghera che non incontrerai mai.


Le vittime del Mediterraneo sono più di 23 mila in 14 anni, un numero spaventoso, peraltro impossibile da verificare con certezza (molte vittime non sono mai state registrate). 
Per saperne di più:
Qui il testo integrale: Migranti, la guerra del Mediterraneo