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sabato 14 dicembre 2013

LA DIFFICILE ARTE DEL MORIRE


Capitolo I. #Donnacce

Il libro di Francesca Serra, La morte ci fa belle, di cui ho parlato qui non è destinato ad esaurirsi nella mia mente. Perché ripeto, apre una serie di spunti interessanti per andare a fondo del problema chiacchieratissimo della morte al femminile, degli uomini che ammazzano le donne. Un problema sviscerato nel libro attraverso una schizofrenica catalogazione della donna/sposa/vecchia/puttana cadavere nella storia dell'arte e della letteratura. Un mito fondatore della cultura odierna. Una cultura asfittica e aggrinzita se privata di quello stesso mito, un basamento/catapulta della cultura del maschio. 
Il libro offre una galleria di esempi letterari brevissimi, una bottega di anticaglie tra cui è possibile trovare di tutto e di tutte le epoche, un libro che impone una revisione più distesa dei testi citati, un libro che invoglia e entusiasma a riprendere in mano vecchi libri dimenticati, ricordi più o meno coscienti di letture bambine (I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift)  cose che non abbiamo letto e che forse non leggeremo mai (Paul e Virginie di Bernardin de Saint-Pierre) cose che assolutamente dobbiamo leggere (Mago sabbiolino di Hoffmann e Lo scarabeo d'oro di Poe) cose curiose (Di diavol vecchia femmina ha natura di Franco Sacchetti) cose che giacciano nel cassetto della nostra formazione e che pensavamo di aver digerito completamente (Decameron di Giovanni Boccaccio). Qui scopriamo che Boccaccio non è l'inventore di storie esemplari del riscatto femminile, ma il regista della più grande delle rappresentazioni ammonitrici per donne capricciose e indisposte ad offrirsi al desiderio maschio.
Ripartiamo da qui. Da Nastaglio degli Onesti.




Amabili donne, come in noi è la pietà commendata, così ancora in noi è dalla divina giustizia rigidamente la crudeltà vendicata; il che acciò che io vi dimostri e materia vi dea di cacciarla del tutto da voi, mi piace di dirvi una novella non men di compassion piena che dilettevole. 

In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già assai nobili e ricchi uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, per la morte del padre di lui e d’un suo zio, senza stima rimase ricchissimo. Il quale, sì come de’ giovani avviene, essendo senza moglie, s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre ad amar lui; le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse le piaceva. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare, che per dolore più volte, dopo molto essersi doluto, gli venne in disidero d’uccidersi. Poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o, se potesse, d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più moltiplicasse il suo amore. Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ’l suo avere parimente fosse per consumare; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare; per ciò che, così faccendo, scemerebbe l’amore e le spese. Di questo consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollicitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo; e fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscì e andossene ad un luogo forse tre miglia fuor di Ravenna, che si chiama Chiassi; e quivi, fatti venir padiglioni e trabacche disse a coloro che accompagnato l’aveano che star si volea e che essi a Ravenna se ne tornassono.

domenica 8 dicembre 2013

LA FEBBRE DEL SABATO SERA LISERGICO


[Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia...]
Nessuno ha voglia di sentir parlare di un passato migliore e sentir ripetere che prima si stava meglio, nessuno ha voglia di mettersi a fare l'ennesima discussione sulla validità del sentimento della nostalgia e sulla realtà di un'umanità contaminata dai vizi del progresso. Chiunque si sparerebbe in testa piuttosto che subire l'eterna lezione sulla saggezza degli antichi. Che poi chi sono questi antichi nessuno lo sa, misteriosi come sono, avvolti dalla fitta nebbia della leggenda. Eppure questi antichi hanno da insegnarci tutta una serie di vantaggi sullo stile di vita antico. Capostipite di questi vantaggi è il sentimento del sabato, il giorno di Saturno, il giorno del riposo, il giorno dell'astensione dal lavoro. Il sabato come apoteosi della speranza, il sentimento cristiano dell'attesa che non disdegna un certo godimento dei risultati. Speranza e godimento sono per eccellenza i sentimenti contrari all'oggi, un luogo abitato da cinici, disoccupati, disillusi e arrabbiati, creature intrappolate in un'eterna domenica.
Il sabato, quell'attimo di luce riflessa che acceca e ubriaca, è sabato perché intorno a noi è sabato.
C'è qualcuno della tua cerchia, un isolato, che puoi vedere soltanto di sabato, perché lavora [shhh]. C'è un paese intorno che dice che la domenica è il giorno del Signore e la mattina bisogna andare in Chiesa, magari [shhh] a pregare per essere iscritti alla lista d'attesa per il miracolo, il lavoro retribuito. Il sabato è sabato perché è un'ottima scusa per bere, bere come se non ci fosse un domani in cui dire /io non bevo più/. I risultati sono sempre disastrosi. Uscire con l'amico occupato scatena sulla nostra auto-stima una serie di conseguenze a catena difficili da fermare, perché tu che sei un disoccupato con molto tempo libero a disposizione, ti ritrovi a osservare l'aulica perfezione fisica e il brillante accostamento di colori dei suoi vestiti, mentre tu...tu fai pendant con lo sciatto paesaggio alluvionato. Per finire a contare le ore del giorno, chiedendoti come ha fatto ad andare in palestra, dal dentista, dall'estetista, a trovare l'amica che ha partorito, a prendere un caffè con un vecchio compagno di scuola, per vedere l'ultimo film di Tarantino, conoscere la programmazione di Fuori Orario e sapere cosa sta succedendo in Siria, così finisci per chiedergli se per caso non sappia anche cosa hai fatto tu tutta la settimana e qualche consiglio per la prossima /chi hai detto che è il tuo parrucchiere? Ma tanto non lo ricorderai. Nel tuo sabato non c'è speranza né godimento, perché è la domenica il tuo giorno, quello della disillusione, dei postumi, del rinnovato fallimento del proposito di fare qualcosa di domenicale, il giorno della discesa del Signore. Triste triste domenica, questa volta corredata da un difficile lunedì. #Renzi.

venerdì 6 dicembre 2013

UN LETTORE | JORGE LUIS BORGES

Daniel Mordzinski



Un lettore
da Elogio dell'ombra (titolo originale Elogio de la sombra) 1969

Menino vanto altri delle pagine che hanno scritte; 
me mi fanno orgoglio quelle lette.
Non sarò stato un filologo,
non avrò investigato le declinazioni, i modi, il laborioso 
mutare delle lettere,
la d che indurisce in t,
l'equivalenza della g e della k,
ma nel corso degli anni ho professato
la passione della lingua.
Le mie notti son piene di Virgilio;
aver saputo e scordato il latino
è possederlo, perché anche l'oblio
è una forma della memoria, la sua vaga cava,
l'altra faccia segreta della moneta.
Quando si cancellarono ai miei occhi
le vane apparenze che amavo,
i volti e la pagina,
mi detti allo studio del linguaggio di ferro
che usarono i miei antichi per cantare
solitudini e spade,
e ora, attraversando sette secoli,
dall'Ultima Thule,
la tua voce mi giunge, Snorri Sturluson.
Dinanzi al libro, il giovane s'impone una disciplina precisa
e lo fa in vista di un preciso conoscere;
ai miei anni ogni impresa è un'avventura
il cui confine è la notte.
Non finirò di decifrare le antiche lingue del Nord,
non tufferò le mani ansiose nell'oro di Sigurd;
il compito cui attendo è illimitato
e dovrà accompagnarmi fino all'ultimo,
non meno misterioso dell'universo
e di me, l'apprendista.

IL LABIRINTO | JORGE LUIS BORGES

Santiago Uceda, Jorge Luis Borges


IL LABIRINTO
da Elogio dell'ombra (titolo originale Elogio de la sombra) 1969

Zeus non potrebbe sciogliere le reti
di pietra che mi stringono. Ho scordato
gli uomini che fui; seguo l'odiato
sentiero di monotone pareti
ch'è il mio destino. Dritte gallerie
che si curvano in circoli segreti,
passati che sian gli anni. Parapetti
in cui l'uso dei giorni ha aperto crepe.
Nella pallida polvere decifro
orme temute. L'aria m'ha recato
nei concavi crepuscoli un bramito
o l'eco d'un bramito desolato.
Nell'ombra un Altro so, di cui la sorte
è stancare le lunghe solitudini
che intessono e disfano questo Ade
e bramare il mio sangue, la mia morte.
Ciascuno cerca l'altro. Fosse almeno
questo l'ultimo giorno dell'attesa.

mercoledì 20 novembre 2013

ORAZIO | UN TRONCO DI FICO | SATIRA VIII

Cy Twombly, Orazio from the portfolio Six Latin Writers and Poets, 1975



[Quinto Orazio Flacco nacque a Venosa tra l'Apulia e la Lucania, l'8 dicembre del 65 a.C.; nel 35 terminò il primo libro delle Satire. Mecenate a cui il primo libro è dedicato, regalò al poeta una villa in Sabina, dove egli potesse ritirarsi a riposare, a studiare e a scrivere, lontano dalla vita caotica di Roma. Le Satire sono un teatro, uno spettacolo di arte varia dove compaiono personaggi surreali, filosofi spennacchiati, ballerine, anfitrioni maleducati e gastronomi pedanti raccontati con un tono basso e volgare, ironico e comico, ma classico]

La satira delle streghe, l'ottava del primo libro, è un racconto in prima persona di Priapo [il dio della fertilità, noto, prima di John Holmes, per le dimensione del suo pene] ovvero dell'erma di legno che rozzamente lo raffigurava e che veniva piantata negli orti e nei campi per spaventare gli uccelli e e i ladri. Orazio narra di come Priapo mise in fuga le due streghe Canidia e Sagana intente a richiamare gli spiriti infernali con un rituale così spaventoso che persino la luna cerca di nascondersi per non vedere tanto orrore. Il luogo è la zona dell'Esquilino, dove un tempo era il cimitero dei poveri; Mecenate l'aveva risanata, trasformandola in parco pubblico. Una pittura espressionista, con la notte popolata di cagne e di serpenti, voci di morti, vecchie pallide e funeree che mordono a sangue l'agnella del sacrificio. Un tuono travolge le donne in una frenetica fuga: non è un intervento dall'alto, solo la madornale scorreggia di Priapo di legno messo a guardia del campo.

Ero una volta un tronco di fico, legno buono a niente, e il falegname, incerto se fare di me uno scanno o un Priapo, mi volle dio. E un dio io sono, grande spaventapasseri e spaventaladri: i ladri li tiene a bada la mia mano e il palo rosso che sporge oscenamente dall'inguine; gli uccelli importuni, li atterrisce una canna legata sulla mia testa, impedendo che si posino sugli orti novelli. Qui prima d'ora i servi portavano a seppellire in rozze bare i cadaveri gettati fuori dalle loro celle anguste; qui era la fossa comune della plebe più misera; per Pantolabo il buffone e Nomentano lo sperperatore, un cippo assegnava mille piedi sul davanti e trecento verso la campagna e stabiliva che il sepolcro fosse escluso dall'eredità. Ora l'Esquilino è risanato, ci si può abitare, si può passeggiare sul soleggiato terrapieno, da dove un tempo si guardava con sgomento la campagna incolta e bianca di ossa; e a me non danno tanto da fare i ladri e le bestie, che di solito affliggono il luogo, quanto quelle tali donne che stravolgono le menti degli uomini con incantesimi e veleni. Non ho modo di distruggerle né d'impedire che, appena la luna errante mostra la sua faccia luminosa, raccolgano erbe velenose e ossa.
Io stesso ho visto Canidia, rimboccata la nera veste, vagare ululando, scalza, con i capelli sciolti, insieme con la più anziana Sagana: il pallore le aveva rese entrambe orride a vedersi. Si misero a scavare la terra con le unghie e a lacerare a morsi un'agnella nera; il sangue lo versarono nello scavo per farne sorgere le anime dei Mani a dare responsi. C'era un fantoccio di pezza e uno di cera; più grande era quello di pezza, che doveva infliggere il castigo all'altro, che gli stava sotto; quello di cera era in atto di supplice, rassegnato a morire al modo degli schiavi. Una invoca Ecate, l'altra la spietata Tesifone; avresti visto vagare serpenti e cagne infernali, la luna rossastra nascondersi dietro i grandi sepolcri per non essere testimone di questi orrori. Se dico bugia, mi sporchino il capo i bianchi escrementi dei corvi, vengano a pisciarmi e a cacarmi addosso Giulio, la gracile Pediazia e il ladro Vorano.
Come racconterò punto per punto in che modo le ombre, scambiando parole con Sagana, fecero risuonare voci tristi e acute; come quelle due nascosero caute sottoterra una barba di lupo col dente di u serpe multicolore e divampò più alta la fiamma quando bruciò il pupazzo di cera e come mi vendicai di aver assistito, rabbrividendo, ai detti e ai fatti di quelle due furie? Pur fatto di fico, scorreggiai dallo spacco delle natiche con lo strepito di una vescica che scoppia; e quelle vie di corsa verso la città. Avresti riso a lungo e ti saresti divertito al mio scherzo, vedendo la dentiera di Canidia e la gonfia parrucca di Sagana cadere per terra e così le erbe e i nodi magici delle braccia.

giovedì 7 novembre 2013

"Protesta del Popolo delle Due Sicilie"

diploma di carbonaro, 1820



"Protesta del Popolo delle Due Sicilie" di Luigi Settembrini, 1847

un pamphlet antiborbonico che secondo l'opinione di molti storici dette il via 

alla preparazione rivoluzionaria del 1848.

Gli stranieri che vengono nelle nostre contrade, guardando la serena bellezza del nostro cielo e la fertilità de' campi leggendo il codice delle nostre leggi, e udendo parlar di progresso, di civiltà e di religione crederanno che gl'italiani delle Due Sicilie, godono di una felicità invidiabile.
E pure nessuno stato di Europa è in condizione peggiore della nostra, non ecccettuati neppure i turchi i quali almeno sono barbari, sanno che non hanno leggi, son confortati dalla religione a sottomettersi a una cieca fatalità e con tutto questo van migliorando ogni dì; ma nel regno delle Sicilie, nel paese, che è detto giardino d'Europa, la gente muore di vera fame, è in istato peggiore delle bestie, solo legge è il caprìccio, il progresso è indietreggiare ed imbarberire, nel nome santissimo di Cristo è oppresso un popolo di cristiani. Se ogni paesello, ogni terra, ogni città degli Abruzzi, de' Principati, delle Puglie e delle Calabrie, e della bella e sventurata Sicilia potesse raccontare le crudeltà, gl'insulti, le tirannie che patisce nelle persone e negli averi; se io avessi tante lingue che potessi ripetere i lamenti e i dolori di tante persone, che gemono sotto il peso d'indicibili mali, dovrei scrivere molti e grossi volumi; ma quel pochissimo ch'io dirò farà certo piangere e fremere d'ira ogni uomo e mostrerà che i pretesi miglioramenti che fa il nostro governo sono svergognate menzogne, sono oppressioni, novelle più ingegnose.
Questo governo è un'immensa piramide, la cui base è fatta dai birri e dai preti, la cima dal re: ogni impiegato, dall'usciere al ministro, dal soldatello al generale, dal gendarme al ministro di polizia, dal prete al confessore del Re, ogni scrivanuccio è despota spietato, e pazzo su quelli che gli sono soggetti, ed è vilissimo schiavo verso i suoi superiori.
Onde chi non è tra gli oppressori si sente da ogni parte schiacciato dal peso della tirannia di mille ribaldi: e la pace, la libertà, le sostanze, la vita degli uomini onesti dipendono dal capriccio, non dico del principe o di un ministro, ma di ogni impiegatello, d'una baldracca, d'una spia, d'un birro, d'un gesuita, d'un prete. [...]



martedì 1 ottobre 2013

DITALINI O DELL'ONANISMO CIVILE

La pasta scotta

C'era una volta un paese chiamato Italia dove viveva un certo signor Barilla. Il suddetto signore era a capo di un'azienda ed era notoriamente un po' tonto, nessuno si aspettava però che lo fosse fino al punto di andare, volontariamente, sui propri piedi, a seppellirsi pubblicamente. Avvenne infatti che, un bel giorno di settembre, si svegliò di buon'ora per andare a dichiarare in radio la strategia di marketing prescelta dalla sua azienda per comunicare il proprio prodotto. Raccontò (generando guerre, morte e distruzione tra i popoli italici che da molti secoli vivevano in pace e crescevano prosperi) di aver scelto la famiglia tradizionale come testimonial della pasta Barilla. Amen.
Una famiglia ideale quanto utopica: benestante, composta da papà, mamma e figlioletti tutti insieme, tutti belli, a mangiare intorno a un tavolo senza litigare, mentre fuori splende il sole, e cantano gli uccellini, e se fuori piove, casa Barilla è il luogo dove trovar riparo. Sì la realtà è diversa. Spesso a tavola si sta in silenzio, spesso mamma e papà non sono felici e i bambini fanno storie perché non hanno voglia di mangiare, spesso fuori piove, la pasta è scotta e il sugo troppo salato, spesso le donne sono state appena picchiate o lo saranno subito dopo, oppure i mariti sono stati traditi, spesso non c'è alcuna famiglia, perché lui o lei non si sono mai sposati, perché non ne avevano voglia o perché erano troppo brutti, troppo stupidi o troppo sfortunati per trovar moglie, altre volte la coppia non ha figli per scelta o per disgrazia.
In altri casi, appunto, la coppia è formata da due donne o da due uomini, una coppia che però, mai (in relazione alle condizioni attuali), in nessun caso in Italia, corrisponderà ad una famiglia, perché -non so forse non ve ne siete ancora accorti- in Italia il matrimonio omosessuale non è consentito e non è consentito alle coppie omosessuali di adottare bambini e con il beneplacito di 8 italiani su 10, e nonostante l'infittirsi delle file di attivisti che nelle ultime ore si sono scoperti sensibili alla causa gay, che storceranno il muso e avranno da aggiungere qualche "ma" e qualche perplessità prontamente giustificata dall'immaturità dei tempi.  E la responsabilità non è affatto del signor Barilla, e per quanto il linciaggio mediatico possa essere divertente, e aiutare in alcuni casi a scaricare sul primo venuto il peso delle frustrazioni quotidiane che ci attanagliano, questo è un fatto che l'urlo della moltitudine non può cambiare. Detto questo e ribadito il fatto che il signor Barilla è libero di pensare ciò che vuole sulla famiglia così com'è o come vorrebbe che fosse perché chissenefrega di cosa vuole lui, rimane anche il problema innegabile della responsabilità civile di questo signore e di chi come lui porta le redini di aziende piccole e grandi che si reggono sull'identità nazionale, dato l'enorme impatto che la pubblicità produce sull'immaginario collettivo. Ma mettiamoci cinque minuti in silenzio in un angolo a pensare se davvero fino a qualche giorno fa eravamo convinti che la Barilla o chi per lei promuovesse attraverso il proprio marchio una rappresentazione anticonformista della famiglia e sostenesse nel proprio piccolo la rivoluzione culturale auspicata dal mondo gay e non solo.
La famiglia protagonista delle campagne pubblicitarie (di pasta e non) è sempre uguale a se stessa da anni, ed io fossi in voi inizierei a dubitare piuttosto della mia capacità di osservazione invece di preoccuparmi delle gaffe di uno che non è un politico né possiede alcuna capacità decisionale sulla società civile. L'ennesimo teatrino. L'Italia che alza la cresta per boicottare un'azienda non già perché non abbia scelto la famiglia gay per pubblicizzare la pasta asciutta, ma perché il suo capo entra nelle vostre case e ve lo dichiara, facendovi scoprire l'acqua calda, è la stessa Italia dove nessuno muove un dito contro il dilagare dell'omofobia e del razzismo in forma massiccia e dichiarata nella classe dirigente e nelle politiche degli ultimi anni, nessuno si scandalizza di fronte ai frequentissimi suicidi provocati dal bullismo, e dove si continuano a confondere le carte sulle competenze e le responsabilità. Inoltre mi permetto di dubitare dell'onestà intellettuale di quanti hanno partecipato a questo pubblico linciaggio, perché nonostante il livello di partecipazione enorme lascerebbe ben sperare sul cambiamento della mentalità del paese, la realtà applicata dal paese stesso rispetto ai tormentoni mediatici si dimostra sistematicamente diversa dall'apparenza. Così che il bombardamento mediatico e il pubblico martirio causato dal signor Silvio Berlusconi abbia prodotto in realtà l'esorcizzazione del problema facendolo di fatto diventare cancerogeno, oggetto d'arredamento sistemato accanto al Colosseo o tra le rovine di Pompei. Così che la pratica del modello social e epidemico delle proteste non possa essere considerata come fenomeno incisivo sulla società e sulla politica, ma debba invece essere inquadrata all'interno delle bolle mediatiche per capacitarsi della sua natura implosiva: si tratta di onanismo civile, dell'intrattenimento della società civile in un'orgia collettiva di protesta con risultati sistematicamente mancati perché non costitutivi dell'interesse induttivo del fenomeno.


Donald Blumberg, The family, 1967


venerdì 27 settembre 2013

SESSO E SOCIALISMO...

...OVVERO METELLO
di Vasco Pratolini

Ci sono libri che fanno la storia e libri che non ha mai letto nessuno. Certi libri scompaiono nell'indifferenza generale, senza lasciare tracce così com'erano comparsi. Alcuni generano scalpori enormi quanto fugaci. Libri bruciati. dimenticati, regalati, persi. Ogni libro ha la sua storia di pochezza o di grandezza. Molte storie non valgono la pena. Oppure sì. E Metello, che non possederà per tutti tratti di grandezza, né il potere di segnare la memoria, non farà forse alzare cori unanimi di approvazione, è una storia che merita d'essere raccontata, tuttavia; qualsiasi cosa ne pensiate: non lo leggerete mai, forse sì, ci penserete.
Pubblicato da Vasco Pratolini nel febbraio del 1955, ideato come parte di una trilogia Una storia italiana, con la quale l'autore si proponeva di ripercorrere e raccontare la società italiana dalla fine dell'Ottocento agli '50 del Novecento (seguiranno Lo scialo, il secondo romanzo della serie pubblicato nel 1960, e il terzo, Allegoria e derisione, del '66). 
Pratolini scrittore e poeta, fu spesso al centro dell'attenzione critica dei suoi contemporanei, perché riuscì a cogliere nel segno delle trasformazioni in atto nella cultura italiana, alla ricerca di nuove forme di espressione, e affaccendata nel restyling delle noiosità dei linguaggi standardizzati. E con Metello certe ferite sanguinarono. 
"Una storia privata, semplice e oscura che s'inquadra nel processo di trasformazione della società" - recita pressappoco la presentazione al libro - la storia del muratore Metello e del suo percorso di formazione di una coscienza di classe conquistata progressivamente nell'ambito delle lotte sociali tra il 1875 e il 1902. Lotte sociali, politica e coscienza di classe, motivi per cui a molti non piacque, e ragioni per cui ad alcuni invece piacque. In un periodo in cui si parlava di realismo sovietico, tirando in ballo Lukàcs Gramsci e De Sanctis, come alternativa al dilagare della cronaca neorealistica, Metello arrivò a mettere scompiglio. La critica marxista si spaccò tra estimatori (Aristarco, Salinari) e detrattori (Muscetta), perché Metello passava troppo tempo alle riunioni o troppo poco, perché Metello stava troppo in camera da letto o troppo poco, perché per gli uni il sesso era un'arma di distrazione dalla lotta politica e per gli altri era invece il segno di una nuova maniera di affrontare il problema centrale della letteratura: il personaggio, indagato a 360°. La discussione, alla quale presero parte, tra gli altri, Carlo Bo, Giuseppe De Robertis, Enrico Falqui, Franco Fortini,va inquadrata nella grande stagione della critica italiana, una critica capace di assumere il ruolo di incoraggiamento e di sviluppo delle linee dell'arte, e, nel caso specifico, di indicare la direzione per un progetto autentico di arte realistica carica di valori civili, sociali e storici. Così se si va a spulciare bene tra le pagine delle riviste del tempo, è facile trovare Vasco Pratolini accanto al nome di Luchino Visconti. Quella sul Metello fu una diatriba speculare e sincronica alla polemica cinematografica intorno a Senso di  Visconti, per consonanza di argomentazioni, marxismo, neorealismo, realismo e controrealismo, a dimostrazione di quanto tedio regnasse nella cultura italiana dell'epoca, imprigionata tra il bozzettismo e la ripetizione martellante di personaggi/automi. E se fosse possibile stabilire verità assolute all'arte, la verità assoluta su Metello oggi sarebbe che, nonostante il tempo passato a letto e nel grembo delle ragazze piuttosto che nel grembo della storia, il nostro protagonista è comparso sulla soglia della storia della letteratura italiana, parlando simultaneamente al passato e al futuro dell'Italia pubblica e privata.

Un romanzo popolare, un classico della letteratura italiana ancora attuale.




mercoledì 25 settembre 2013

CON IL FIATO SOSPESO


Costanza Quatriglio a Venezia in 35 minuti

Presentato fuori concorso alla 70esima Mostra del Cinema di Venezia, il nuovo film di Costanza Quatriglio, Con il fiato sospeso, continua il percorso di indagine sulla realtà attraverso il dubbio già avviata nei lavori precedenti dalla cineasta siciliana: Ècosaimale? documentario del 2000 ambientato nella periferia palermitana, L'Isola presentato alla Quinzaine di Cannes 2003, suo esordio nel lungometraggio, nel quale confluiscono le esperienze di cortometraggi e mediometraggi di una cospicua filmografia costruita attraverso l'agile e strategico passaggio tra linguaggi diversi, dal documentario alla fiction, e ancora Terramatta, presentato a Venezia un anno fa alle Giornate degli Autori e Nastro d'Argento per il miglior documentario del 2013.
Con il fiato sospeso rappresenta un ulteriore passo verso la costruzione di questo linguaggio contaminato, guidato dalla volontà di uscire dalla pura cronaca per andare più a fondo, mediante la messa in scena. Ispirato da una storia realmente accaduta, il soggetto era infatti perfetto per un documentario: nel novembre del 2008, i laboratori di chimica dell'Università di Catania vengono messi sotto sequestro, il Tg regionale ne dà notizia trasformando i sospetti in certezze, le troppe morti avvenute tra impiegati e studenti che avevano lavorato in quel laboratorio non erano casuali. Il padre di Emanuele Patanè, una delle vittime, trova alcune pagine scritte al computer dal figlio prima di morire, un diario con delle inquietanti rivelazioni: nel laboratorio c'è qualcosa che non va, l'ambiente è insalubre, le cappe non funzionano e il benzene te lo respiri. Fin qui la cronaca. Ma la Quatriglio non vuole accontentarsi, vuole di più, vuole che questa storia diventi un film di finzione, vuole raccontare la passione, l'energia e l'amore per il proprio mestiere di ragazzi mangiati e uccisi dal sistema. Il risultato è un film che non è lungometraggio - dura 35 minuti - realizzato senza un budget e in parte autoprodotto con il sostegno di un collettivo di professionisti, fino all'ingresso della Jolefilm e dell'Istituto Luce Cinecittà per la distribuzione: la storia di Stella (Alba Rohrwacher) studentessa di Farmacia e della sua coinquilina Anna (Anna Balestrieri della band Black Eyed Dog) accompagnate di tanto in tanto dalle parole estrapolate dal memoriale di Emanuele (la voce è di Michele Riondino), è una storia di passione e tradimento, il tradimento di un paese incapace di progettare e garantire un futuro per i suoi figli.


Regia, soggetto e sceneggiatura: Costanza Quatriglio; Interpreti: Alba Rohrwacher, Michele Riondino, Anna Balestrieri, Gaetano Aronica; Fotografia: Sabrina Varani; Scenografia: Beatrice Scarpato; Musiche: Paolo Buonvino; Italia, 2013, 35'.

sabato 21 settembre 2013

PALAZZO DUCALE DI URBINO, CROCE E DELIZIA





Il Palazzo Ducale di Urbino, sede della Galleria Nazionale delle Marche, è stato giustamente definito come la cosa più bella del Rinascimento, una bellezza condivisibile sin dal primo sguardo anche da chi non sappia assolutamente nulla del Rinascimento: la “città in forma di palazzo” della celeberrima definizione di Baldassare Castiglione. Dopo aver pagato il biglietto (il cui prezzo può dirsi irrisorio, 5 euro, con tutte le riduzioni previste) gustato un buon caffè e recuperato il senso dell’orientamento tra i diversi ambienti del piano terra – dove gli spazi un po’ macchinosamente riutilizzati per la logistica e l’accoglienza sono mescolati con ambienti visitabili, come la biblioteca del duca e i sotterranei  – incontri le scale che ti porteranno al primo piano: il cuore del Palazzo. Il percorso “privato”, grossomodo tripartito tra il cosiddetto appartamento della Jole, gli appartamenti dei Melaranci e gli appartamenti del Duca e della Duchessa, è nello stesso tempo un percorso ideale attraverso la cronologia delle opere e del gusto dell’arte tra Medioevo e Barocco. Questa natura duplice del palazzo è il più grande omaggio possibile alla figura multiforme del Duca Federico, il pubblico e il privato, il condottiero e il mecenate d’arte.  La visita a Palazzo Ducale, sosta d’obbligo in un ipotetico e ideale viaggio nelle Marche, può essere davvero un’esperienza straordinaria, perché l’ingresso può trasformarsi in un viaggio nel tempo, in un sogno in cui il protagonista sei tu, ospite privilegiato di una visita negli appartamenti del duca Federico da Montefeltro. C’è un però.
Il visitatore, con la testa per aria, in giro tra gli ambienti del palazzo, potrebbe effettivamente perdersi il gusto della Galleria, e concentrarsi maggiormente su quella che è la dimensione privata del palazzo. Così, quello stesso visitatore, potrebbe rivivere l’esperienza tutt’altro che rara dell’ospite in visita nell’appartamento di un collega, una visita senza preavviso che inizia con la frase canonica “scusa il disordine”: perché di disordine si tratta. Le opere disposte con un criterio cronologico non sempre rispettato, ma manomesso frequentemente per l’improbabile rispetto di un ordine tipologico, di proprietà o paternità, sono disperse in modo variamente illuminato nelle diverse stanze dominate qui dall’horror vacui, dal minimalismo altrove. E non si può tacere dell’assoluta mancanza di gerarchia e di valorizzazione dei tanti capolavori presenti; fatta eccezione per la sala dedicata a Piero della Francesca  dove una “mostrazione” intima e l’illuminazione razionale della Flagellazione e della Madonna di Senigallia, rendono davvero unico il momento di raccoglimento del visitatore di fronte a due capolavori assoluti della storia dell’arte, il resto è buttato via senza un’evidente giustificazione alla stregua di ingombranti anticaglie che dobbiamo conservare per rispetto dei nonni defunti. Come si fa a perdonare l'assoluta "mancanza di rispetto" per  Il miracolo dell'ostia profanata di Paolo Uccello? Come si fa a intercettare la smembrata e trasferita biblioteca del Duca se è segnalata con la stessa cura della toilette? Cosa si può dire a questo punto alla maldestra proprietaria di casa? Il tuo appartamento è bellissimo, ma cerca di mettere ordine. Diversamente, chiama qualcuno che ti dia una mano. 

Serena Di Sevo


mercoledì 28 agosto 2013

LABIRINTO | JORGE LUIS BORGES



















Labirinto
in Elogio dell'ombra (titolo originale Elogio de la sombra) 1969

Non ci sarà sortita. Tu sei dentro
e la fortezza è pari all'universo
dove non è diritto né rovescio
né muro esterno né segreto centro.
Non sperare che l'aspro tuo cammino
che ciecamente si biforca in due,
che ciecamente si biforca in due,
abbia fine. È di ferro il tuo destino,
così il giudice. Non attender l'urto
del toro umano la cui strana forma
plurima colma d'orrore il groviglio
dell'infinita pietra che s'intreccia.
Non esiste. Non aspettarti nulla.
Neanche nel nero annottare la fiera.


...

lunedì 12 agosto 2013

DI DIAVOL VECCHIA FEMMINA HA NATURA

#VECCHIACCE

Franco Sacchetti e il Vituperium in vetulam.
[La donna anziana è descritta come la personificazione del male, una bestia perversa e mostruosa]

Di diavol vecchia femmina ha natura,
fèra diversa e fuor d'ogni misura.
Del ben s'atrista e con invidia il mira, 
e di veder il male ingrassa e ride;
ordina, pensa ciò ch'altrui martira,
e dentro a gioia, quando di fuor stride.
Così quest'animal brutto conquide
ciascun che vive, ed ogni luce oscura.
Al mondo spiace la sua opra e vista
più che non piacque adrieto in giovanezza;
e per questo, che vede, al cor acquista
superbia e ira nella sua vecchiezza,
sì che le fa bramar l'altrui bellezza
tornar al simil della sua figura.
Dunque, qual giovin donna è sì beata
che non giugne a tal tempo, dè' volere,
poi c'ha passata la stagione amata,
metter la morte sua a non calere:
ché drieto al buono stato il reo vedere
è peggio che chi al mal sempre s'indura.

lunedì 1 luglio 2013

BORIS VIAN | LA SCHIUMA DEI GIORNI



Uscito nell'immediato dopo guerra (1947) per l'editore Gallimard, La schiuma dei giorni si rifrange nel corso dei decenni successivi calamitandosi alle atmosfere d'insofferenza in fieri, un libro di culto per il '68 che scopre nelle incendiarie immaginazioni, nelle strambe associazioni, una risposta dissacrante verso l'ordine costituito, politico, sociale e culturale, un capolavoro letterario che dura da settant'anni, una folgorazione per lettori di epoche distanti. Quella di Vian è una realtà magica, la malattia è un fiore, l'amore atto mortifero e sublime, il suono corrisponde sempre ad una specifica materia connaturata, le canzoni si materializzano, gli ambienti sono la proiezione dell'umore di chi li abita, l'età anagrafica elemento mutante...l'unica cosa che conta è l'amore e la musica di New Orleans e Duke Ellington. Il mondo di Vian si condensa sulla superficie di pagine che vogliono essere scritte da un'esistenza perfetta fatta di musica jazz, buona cucina e d'amore per 3 coppie di amanti, finendo per evaporare nel fumo nero di un'esistenza tragica per costituzione. Ogni pagina possiede il senso sperduto della realtà che non è affatto irrealtà, sogno, ma delirio scomposto con il metro della regola sociale, ogni pagina è totalmente vera perché è totalmente inventata: ogni singolo quadro ha l'odore di uno sguardo lucido e penetrante la propria immaginazione. Perché tutte le fasullagini degli pseudo realisti con le loro fotografie-bare del pernsiero critico, hanno sistematicamente mancato il centro della realtà. Provate a leggere pagine più acute sulle alterazioni prodotte dalla presenza in casa di un malato terminale, la claustrofobia degli ambienti occupati dall'incertezza, dalla rottura del ritmo, Chloé; provate a cercare più amara dissacrazione della marcia funebre, del prete, della messa sottoposta allo sguardo distratto del Cristo in croce; il montaggio d'immagini di fabbriche e cantieri, di impiegati dadaisti e aguzzini burocrati, di cannibalici commercianti e di medici inetti. Puoi fermarti a chiacchierare con una nuvola o andare in giro a guardare le vetrine, con un macellaio che sgozza bambini per la pubblicità dell'assistenza pubblica, e un pancione grasso a pubblicizzare un ferro da stiro, perché con quello la vostra pancia non farà più una piega. L'ambiente esterno è abitato da mostri e all'interno c'è un uomo bello, ricco e cautamente infelice, Colin, con la sua tavola imbandita di improbabili salse speziate, animali vivi e intrugli d'alta cucina, con i suoi topi che spuntano dal portaspazzolino, con il suono liquido del pianocktail che non lascia mai dubbi su cosa bere sù un buon disco per ballare lo sbircia-sbircia, Colin che vuole l'amore e che può vivere senza lavorare. Chi deve lavorare, invece, è Chick, per guadagnare quel che basta ad alimentare il proprio feticismo di collezionista delle opere di Jean-Sol Partre, Paradosso dello schifo, Scelta preliminare prima del rivoltone di stomaco, una ricerca maniacale, un'ossessione, che mette tutto in secondo piano, anche l'amore per Alice. E lì, nelle tenebre di un'infelicità paradossale ma non priva di cause riconoscibili, abita il verme che non vorresti mai inghiottire perché ti costringerà a pensare a quanto c'è di accidentale, di ingiusto, di ricercato nella tua miseria.
Pubblicato in Italia da Marcos y Marcos, leggetelo.

 
Là dove i fiumi si gettano nel mare, si forma una barriera difficile da superare, e grandi vortici schiumanti in cui ballano i relitti. Di fuori la notte, là dentro la luce della lampada, e in mezzo i ricordi rifluivano nell'oscurità, si urtavano nel chiarore, e mostravano le loro pance bianche e le loro schiene argentate, galleggiando qualche volta in superficie, altre volte affondando di nuovo.

Serena Di Sevo

sabato 29 giugno 2013

BORIS VIAN | L'ASSASSINO


L'assassino [pubblicato per la prima volta in Dans le train num. 17, dicembre 1949, e in Italia in L'Unità 21 marzo 1988]
di Boris Vian [10 marzo 1920, Ville-d'Avray, Francia | 23 giugno 1959, Parigi, Francia]
racconto breve

Perché Caino ammazzò Abele
Era una prigione come un'altra, una baracca d'argilla e paglia dipinta di giallo cucuzza, con camino impudico
e tetto di foglie d'asparago. Questo accadeva da qualche parte nei tempi antichi, c'era sparso attorno un sacco di ciottoli e conchiglie di ammoniti, trilobiti e compagnia bella, residui dell'era glaciale. Nella prigione, si sentiva russare in giavanese, a strappi. Entrai. Un uomo giaceva sul tavolaccio, addormentato. Indossava delle mutande blu e ginocchiere di lana. 
- Oéoéoéoé gli gridai nell'orecchio. Avrei potuto gridare qualche altra cosa, direte voi, ma tanto dormiva e non sentiva. Quel grido, tuttavia, lo ridestò. 
- Arrgrr! fece per schiarirsi la gola. 
- Chi è quel rimbambito che ha aperto la porta? - Io dissi. Evidentemente, ciò non gli piaceva granché, ma non sperate di saperne di più neanche voi. 
- Dal momento che confessa, osservò, vuol dire che è colpevole.
- Ma anche lei lo è, replicai, o non sarebbe in prigione.
Difficile opporsi alla mia logica dialettica assolutamente diabolica. In quel momento, per giunta, una cornacchia bianca e rossa entrò dal lucernaio e fece sette volte il giro della cella. Rivolò via quasi subito e mi domando ancora, dieci anni dopo, se la sua comparsa avesse un senso. L'uomo, ammansito, mi guardò e scosse il capo.
- Mi chiamo Caino, disse
- Piacere
- Suppongo lei voglia chiedermi perché ho ammazzato Abele.

giovedì 27 giugno 2013

ČECHOV E LE DONNE

Jim Dine, 

Study for The Car Crash: Man in Woman's Costume and Woman in Man's Costume, 1960

ČECHOV E LE DONNE: 
SINGULA ENUMERARE OMNIA CIRCUMSPICERE.


Ho pubblicato un po' a caso nei tre post precedenti tre racconti di Čechov tutti al femminile. Le donne nell'opera di Cechov sono presenze massicce e innumerevoli, abitano quel mondo come una forza motrice troppo spesso sottovalutata in ambito critico. Non fanno eccezione i racconti: una forma incompleta e fuggevole fatta apposta per cogliere la moltitudine di problematiche connesse all'indagine sulla femminilità, un'indagine che deve fare i conti con il controverso ruolo [chiave] rivestito dalle donne nella società. Una serie di racconti "rosa" in cui è possibile trovare una gamma sconfinata di tipologie: donne giovani, vecchie, streghe, ammogliate, fidanzate, ingenue, furbe, fragili, disperate, avide, superficiali, riflessive, manipolatrici, provenienti da diversi ambienti e da diverse classi sociali; donne tutte diverse fra loro sì, ma sottoposte al giudizio unico (negativo) dell'autore. La fidanzata (1903) assume in tal senso un significato tutto particolare perché è l'unico, tra i racconti "femminili" di Cechov che ho avuto modo di leggere, a non emettere un giudizio negativo sulla protagonista, almeno non immediatamente. Mentre negli altri racconti l'autore dipinge ed espone un quadro infernale dell'universo femminile, benché sempre caricato di forte responsabilità nei confronti della struttura della società, della famiglia e della storia, qui scorgiamo un personaggio (Nadja) assunto sì a fare da crocevia tra un'epoca e l'altra della storia russa, ma con consapevolezza, con dignità; Nadja è una donna guidata da una volontà propria, dotata di una risolutezza totalmente assente negli altri personaggi, accomunati dallo status di docili, impotenti vittime del sistema, quasi sempre schiacciate dalle scelte imposte dalla struttura famiglia. Ne La strega, una giovane e bellissima donna è vittima del proprio status di moglie di un orribile e squallido marito imposto dall'alto, ed è vittima impotente dei propri istinti sessuali (frustrati); ne La cuoca si ammoglia, sotto lo sguardo incredulo e indagatore di un bambino, la protagonista (Pelageja) tra lacrime, urla e disperazione è costretta a sposare un uomo che non ama, che disprezza; ne Il racconto della signorina N. N. troviamo invece la vittima di se stessa, della propria vanità e di quella frequente propensione delle donne a intrappolarsi nella procrastinazione (o, al contrario, in un decisionismo folle e precipitoso guidato da una natura volubile). Molto diversa è, invece, la nostra fidanzatina Nadja; per lei l'autore ha predisposto delle possibilità impossibili per le sue colleghe, per lei la società e una classe sociale priviliegiata hanno previsto una via d'uscita. Nadja è stata educata a pensare, ed in effetti ha sempre pensato, che il naturale obiettivo della sua vita fosse il matrimonio. Nascita, crescita, fidanzamento, matrimonio, zero sforzi (fatta eccezione per quel "partorirai con dolore"), zero problemi, morte: è così che deve vivere una ragazza. Nessuno potrà mai interrompere questa linea retta tracciata nei secoli passati e futuri. Ma l'imprevedibilità della natura femminile può giocare dei brutti scherzi alle regole scritte e non delle strutture sociali, soprattutto se la donna incontra sulla propria strada l'uomo giusto, cioè l'uomo sbagliato. Ne La fidanzata, infatti, la ribellione, interna prima ed esterna poi, della protagonista sono in realtà indotte non già da un'autonoma presa di coscienza sviscerata dallo squallore della propria condizione e del proprio destino, ma dall'intervento diretto di una figura maschile "imprevista", totalmente eccentrica rispetto al contesto (Saša). Siamo cioè messi al centro dell'ennesima situazione in cui è in realtà l'uomo a trascinare la volontà femminile, in cui la decisione, una decisione qualsiasi (in questo caso il rifiuto del matrimonio e la fuga verso la conquista di un futuro e di una coscienza critica), è qualcosa di indotto e preordinato da una coscienza esterna e, naturalmente, maschile. Tuttavia in questo caso Saša altro non è che l'esperienza, la storia, l'a posteriori, il vissuto, quelle categorie assenti e non intuibili nell'universo ovattato in cui è cresciuta Nadja. Saša è dunque non già il fantasma dell'autore nel racconto, intervenuto per dire della non autonomia femminile, ma è il segno dell'intervento dell'esperienza e di un sapere altro necessario e imprescindibile per il cambiamento. La condanna dunque non è al mondo femminile, che è piuttosto preso come emblema dell'arcaicità della società e di una condizione universale da sovvertire e sovvertibile; la condanna ricade sulla testa di un sistema di funzionari e di mantenuti in cui le figure maschili hanno una funzione reazionaria o rivoluzionaria e il loro intervento si rende necessario perché chi più conosce, chi più ha vissuto, ha la possibilità se non la responsabilità del cambiamento. I due personaggi maschili principali Saša e il fidanzato Andrèj sono figure tipiche della letteratura russa dell'epoca: l'intellettuale critico e il giovane velleitario, ma Saša possiede anche dei tratti autobiografici dell'autore (in primis la malattia polmonare) che ne fanno un personaggio sfaccettato e affascinante e, in una certa misura non completamente coglibile. Di certo c'è che Čechov, attraverso Saša scruta la società, donne, uomini e quant'altro, e senza dare giudizi definitivi, coglie la possibilità del cambiamento riconoscendo agli intellettuali una funzione trainante.

Serena Di Sevo


mercoledì 26 giugno 2013

ANTON ČECHOV | LA FIDANZATA

Edvard Munch, Weeping nude, 1913
La fidanzata
racconto, 1903
di Anton Čechov [Taganrog 16 gennaio 1860 - Badenweiller 2 luglio 1904]
ČECHOV E LE DONNE, SINGULA ENUMERARE, CAPITOLO TERZO

ČECHOV E LE DONNE, OMNIA CIRCUMSPICERE


I.

Erano già all'incirca le dieci di sera, e in giardino splendeva la luna piena. In casa degli Šumin era appena terminata la funzione del vespro che la nonna Marfa Michàjlovna aveva fatto celebrare, e Nadja, uscita per un momento nel giardino, vedeva che nel salone veniva apparecchiata la tavola per gli antipasti e che nel suo sontuoso abito di seta la nonna era tutta affaccendata; il padre Andrèj, arciprete della cattedrale, stava discorrendo con la madre di Nadja, Nina Ivànovna, la quale ora, nella luce serale, attraverso i vetri della finestra, pareva, chissà perché, molto giovane; accanto a loro stava il figlio dell'ecclesiastico, Andrèj Andreič, e ascoltava attentamente. Nel giardino silenzioso l'aria era fresca e ombre scure e immobili si stendevano sul suolo. Lontano, molto lontano, probabilmente fuori città, si udiva un gracidare di rane. Si sentiva nell'aria il maggio, il caro maggio! Si respirava a pieni polmoni e veniva voglia di pensare che non quaggiù, ma in qualche luogo sotto il cielo, sopra gli alberi, lontano, fuori della città, nei campi e nei boschi, fioriva ora una propria vita primaverile, una vita misteriosa e bellissima, ricca e sacra, inaccessibile all'intendimento, della debole e peccaminosa creatura umana. E veniva voglia, chissà perché, di piangere.
Lei, Nadja, aveva già ventitré anni; fin dai suoi sedici anni aveva appassionatamente sognato il matrimonio, e ora, finalmente, era fidanzata a Andrèj Andreič, quello stesso che ora stava al di là della finestra. Il giovane le piaceva, le nozze erano già fissate per il sette di luglio, e tuttavia Nadja non provava alcuna gioia, di notte dormiva male e la sua allegria d'una volta era scomparsa...
Dal sottosuolo, dove si trovava la cucina, giungevano attraverso la finestra aperta lo scalpiccio affaccendato della servitù, il tintinnio di coltelli, lo sbattere di una porta; veniva l'odore di tacchino arrosto e di ciliegie marinate. E chissà perché, pareva che sarebbe stato così per tutta la vita, senza mutamenti, senza fine! Ecco che qualcuno è uscito dalla casa e si è fermato sulla scalinata; è Aleksàndr Timofeič, o più semplicemente Saša, un ospite arrivato da Mosca dieci giorni fa. Molti anni addietro veniva di tanto in tanto dalla nonna per aver un sussidio una sua lontana parente, Mar'ja Petrovna, una vedova di nobile famiglia, caduta in miseria, una donnetta piccola, magrolina, malata. Aveva un figlio, Saša. Si diceva di lui, chissà perché,  che aveva la stoffa d'un eccellente artista, e quando sua madre morì, la nonna, pensando alla salute della propria anima, lo mandò a Mosca, all'istituto Komissàrovskij; due anni dopo era passato però alla scuola di pittura, dove era rimasto quasi quindici anni, finendovi alla men peggio i corsi di architettura. Ma non si era messo a esercitare la professione di architetto e lavorava invece in una litografia di Mosca. Quasi ogni anno d'estate veniva, gravemente malato, a stare dalla nonna, per riposare e rimettersi in salute. Portava ora una giacca abbottonata e pantaloni di tela, lisi, sfilacciati in fondo. Anche la camicia non era stirata, e tutta la sua figura aveva qualcosa di logoro. Magrissimo, con occhi grandi, con delle dita lunghe e scarne, barbuto e scuro, aveva tuttavia un che di bello. Agli Šumin si era avvezzato come a dei parenti e si sentiva da loro come in casa sua. E la camera dove abitava, durante i suoi soggiorni estivi, già da tempo si chiamava la camera di Saša. Fermatosi sulla scalinata, scorse Nadja e le si avvicinò.
- Si sta bene qui da voi - disse.
- Certo che si sta bene. Dovreste rimanere qui fino all'autunno.
- Già, mi converrà forse far così. Può darsi che mi trattenga qui da voi fino a settembre.
Rise senza motivo e le si sedette accanto.
- Io ecco, me ne sto seduta qui e guardo la mamma - disse Nadja. Vista da qui sembra tanto giovane! La mia mamma, certo, ha le sue debolezze - aggiunse dopo un po' - tuttavia è una donna straordinaria.
- Sì, buona - acconsentì Saša. - La vostra mamma secondo me certo è una donna di cuore, e molto cara, ma ...come devo dirvelo? Stamani presto sono entrato un momento nella vostra cucina, e vedo che le vostre quattro domestiche dormono addirittura sul pavimento, non ci sono letti, e al posto dei letti ci sono dei mucchi di cenci, e un puzzo, cimici, scarafaggi...Tale e quale a vent'anni fa, nessun cambiamento. Bé, la nonna, che Dio l'abbia in pace, è della vecchia generazione; ma la mamma, mi pare, è diversa, parla francese, prende parte agli spettacoli. Certe cose si potrebbero anche capire, direi. Quando parlava, Saša aveva l'abitudine di protendere verso l'interlocutore due dita lunghe, scarne.

domenica 23 giugno 2013

ANTON ČECHOV | IL RACCONTO DELLA SIGNORINA N. N.

Dante Gabriel Rossetti, Lady Lilith, 1866-1868
Il racconto della signorina N. N.
racconto breve,
di Anton Čechov [Taganrog 16 gennaio 1860 - Badenweiller 2 luglio 1904]

ČECHOV E LE DONNE, CAPITOLO SECONDO
[Dopo La fortuna d'esser donna, un altro breve racconto di Čechov, un altro tassello dell'indagine sul ruolo della donna nella società, attraverso figure femminili molto diverse fra loro]

Circa nove anni fa, poco prima di sera, al tempo della falciatura, io e Pëtr Sergeič, che faceva le funzioni di giudice istruttore, ci recammo a cavallo alla stazione per ritirare la corrispondenza.
Il tempo era splendido, ma al ritorno si udirono dei brontolii di tuono, e vedemmo una nuvola nera minacciosa che si muoveva diritta verso di noi. La nuvola s'avvicinava a noi mentre noi ci avvicinavamo ad essa. Sullo sfondo biancheggiavano la nostra casa e la chiesa, e luccicavano argentei gli alti pioppi. C'era odore di pioggia e di fieno falciato. Il mio compagno era era in vena. Rideva e diceva una gran quantità di sciocchezze. Diceva che non sarebbe mica stato male se strada facendo ci fossimo imbattuti d'un tratto in un castello medievale dalle torri merlate, ricoperte di muschio, popolato di gufi, perché potessimo ripararci lì dalla pioggia e perché alla fine la folgore ci uccidesse...
Ma ecco che sulla segale e sul campo d'avena corse una prima ondata, si scatenò il vento e nell'aria cominciò a turbinare la polvere. Pëtr Sergeič scoppiò in una risata e spronò il cavallo. 
- Bene! - esclamò. - Benissimo!
Io, contagiata dalla sua allegria, e al pensiero che in pochi istanti mi sarei bagnata fino alle ossa e che potevo essere uccisa dalla folgore, mi misi a ridere anch'io.

martedì 18 giugno 2013

ANTON ČECHOV | LA FORTUNA D'ESSER DONNA

La fortuna d'esser donna
racconto breve,
di Anton Čechov [Taganrog 16 gennaio 1860 - Badenweiller 2 luglio 1904]


ČECHOV E LE DONNE, CAPITOLO PRIMO.
[Inauguro così, con questo breve, brevissimo testo, la serie di racconti che Čechov ha dedicato alla riflessione sulla figura femminile]

Si facevano i funerali del tenente generale Zapupyrin. Verso la casa del defunto, dove echeggiava la marcia funebre e risuonavano parole di comando, la gente accorreva da ogni parte, desiderosa di assistere al trasporto del feretro. In uno dei gruppi che accorrevano, si trovavano due impiegati, Probkin e Svistkòv. Tutti e due erano con la moglie. 
- Non si può passare - li fermò un vice commissario di polizia, dal viso buono e simpatico, quand'essi si avvicinarono ai cordoni. - No-on si può! Prego, un pochino più indietro! Signori, non dipende da noi! Prego, indietro! Del resto, e sia, le signore possono passare...prego, mesdames, ma...voi signori, per amor di Dio...
Le mogli di Probkin e di Svistkòv si fecero rosse per l'inattesa amabilità del vice commissario e sgusciarono attraverso i cordoni, ma i mariti rimasero dall'altra parte della barriera vivente a contemplare le schiene delle guardie a piedi e a cavallo.
- Sono passate! - disse Probkin, guardando con invidia, quasi con odio, le donne che si allontanavano. - Hanno fortuna, per Dio, queste gonnelle! Al sesso maschile non saranno mai concessi i privilegi di cui gode il sesso femminile. Ma che c'è in loro di straordinario? Sono donne, si può dire, delle più comuni, piene di pregiudizi, e le hanno lasciate passare; ma io e te, anche se fossimo consiglieri di Stato, per nulla al mondo ci lascerebbero passare. 
- Il vostro modo di ragionare è strano, signori! - disse il vice-commissario, guardando Probkin con aria di rimprovero. - Se vi lasciassero passare, voi comincereste subito a spingere e a far disordine: ma una signora, con la sua finezza, non si permetterà mai nulla di simile!
- Smettetela, per carità! - si irritò Probkin. - Nella folla la donna è sempre la prima a spingere. L'uomo sta fermo e gurada in un punto, ma la donna lavora di gomiti e spinge perché non le sciupino le vesti. Non c'è che dire! Il sesso femminile ha sempre fortuna in tutto. Le donne non vanno a fare il soldato, partecipano gratuitamente alle serate danzanti e sono esenti dalle pene corporali...E per quali meriti, domando io? Una signorina lascia cadere un fazzoletto e tu glielo raccogli; lei entra e tu ti alzi e le cedi la tua sedia; esce, tu l'accompagni...E prendete i titoli! Per giungere, mettiamo, a consigliere di Stato, tu ed io dobbiamo sgobbare tutta la vita, ma una ragazza in quattro e quattr'otto si sposa con un consigliere di Stato: ecco che è già una personalità. Perché io sia fatto principe o conte è necessario che conquisti il mondo, prenda una città ai Turchi, diventi ministro; ma una qualsiasi, che Dio mi perdoni, Vàren'ka o Kàten'ka, con ancora il latte sulle labbra, fa la ruota davanti a un conte, strizza gli occhiettini, ed eccola sua altezza...Tu sei ora segretario provinciale...Questo grado, si può dire, te lo sei guadagnato con sudore e sangue; ma la tua Mar'ja Fomišna? per qual ragione è segretaria provinciale? da figlia di pope, è diventata direttamente funzionaria! Bella funzionaria! Dàlle da fare il nostro lavoro e lei ti scriverà le entrate al posto delle uscite.
- Però la donna partorisce i figli con dolore - osservò Svistkòv.