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domenica 23 giugno 2013

ANTON ČECHOV | IL RACCONTO DELLA SIGNORINA N. N.

Dante Gabriel Rossetti, Lady Lilith, 1866-1868
Il racconto della signorina N. N.
racconto breve,
di Anton Čechov [Taganrog 16 gennaio 1860 - Badenweiller 2 luglio 1904]

ČECHOV E LE DONNE, CAPITOLO SECONDO
[Dopo La fortuna d'esser donna, un altro breve racconto di Čechov, un altro tassello dell'indagine sul ruolo della donna nella società, attraverso figure femminili molto diverse fra loro]

Circa nove anni fa, poco prima di sera, al tempo della falciatura, io e Pëtr Sergeič, che faceva le funzioni di giudice istruttore, ci recammo a cavallo alla stazione per ritirare la corrispondenza.
Il tempo era splendido, ma al ritorno si udirono dei brontolii di tuono, e vedemmo una nuvola nera minacciosa che si muoveva diritta verso di noi. La nuvola s'avvicinava a noi mentre noi ci avvicinavamo ad essa. Sullo sfondo biancheggiavano la nostra casa e la chiesa, e luccicavano argentei gli alti pioppi. C'era odore di pioggia e di fieno falciato. Il mio compagno era era in vena. Rideva e diceva una gran quantità di sciocchezze. Diceva che non sarebbe mica stato male se strada facendo ci fossimo imbattuti d'un tratto in un castello medievale dalle torri merlate, ricoperte di muschio, popolato di gufi, perché potessimo ripararci lì dalla pioggia e perché alla fine la folgore ci uccidesse...
Ma ecco che sulla segale e sul campo d'avena corse una prima ondata, si scatenò il vento e nell'aria cominciò a turbinare la polvere. Pëtr Sergeič scoppiò in una risata e spronò il cavallo. 
- Bene! - esclamò. - Benissimo!
Io, contagiata dalla sua allegria, e al pensiero che in pochi istanti mi sarei bagnata fino alle ossa e che potevo essere uccisa dalla folgore, mi misi a ridere anch'io.
Il turbine e la rapida corsa, quando si respira trafelati per il vento e ci si sente leggeri come un uccello, agitano e solleticano il petto. Quando entrammo nel nostro cortile, non c'era più vento e grossi spruzzi di pioggia battevano sull'erba e sui tetti. Presso la scuderia non c'era anima viva. Pëtr Sergeič tolse lui stesso i finimenti ai cavalli e li condusse alla mangiatoia. Aspettando che avesse finito, stavo presso la soglia e guardavo le strisce oblique della pioggia violenta; l'odore greve, eccitante del fieno si sentiva qui più forte che nel campo; per le nuvole e la pioggia si era fatto quasi buio. 
- Che colpo! - disse Pëtr Sergeič, avvicinandosi a me dopo il rimbombo fortissimo di un tuono, che echeggiò a lungo, per cui parve che il cielo si fosse spaccato in due. - Che ne dite?
Stava accanto a me sulla soglia e respirando affannosamente per la rapida corsa, mi guardava. Mi accorsi che mi guardava con ammirazione. 
- Natal'ja Vladìmirovna - disse - darei tutto per poter soltanto rimanere qui a osservarvi. Oggi siete meravigliosa. Nei suoi occhi c'era un'espressione entusiasta e supplichevole, il viso era pallido, sulla barba e sui baffi luccicavano delle gocce di pioggia che pareva mi osservassero pure amorevolmente.
- Vi amo - egli disse. - Vi amo e sono felice di vedervi. So che non potete diventare mia moglie, ma non  voglio nulla, non mi occorre nulla. Basta che sappiate che vi amo. Tacete, non rispondete, non badate a quel che io dico, ma solo sappiate che mi siete cara e permettetevi di guardarvi. 
Il suo entusiasmo si comunicò anche a me. Guardavo il suo viso ispirato, ascoltavo la voce che si mescolava allo scrosciare della pioggia e, come ammaliata, non riuscivo a muovermi.
Avrei voluto guardare senza fine quegli occhi lucenti e ascoltare. 
- Voi tacete, ed è bellissimo! - disse Pëtr Sergeič. - Continuate a tacere. 
Mi sentivo felice. Risi di soddisfazione e corsi sotto la pioggia a dirotto verso casa; rise anch'egli e, saltellando, mi corse dietro.
Facendo un gran chiasso, come bambini, bagnati, trafelati, battendo i piedi sulle scale, ci precipitammo nelle stanze. Mio padre e mio fratello non abituati a vedermi ridente e allegra, mi osservarono stupiti e si misero anch'essi a ridere. Le nubi temporalesche erano già passate, il tuono era cessato, ma sulla barba di Pëtr Sergeič brillavano ancora le gocce di pioggia. Fino all'ora di cena non smise mai di cantare, di fischiettare, di scherzare rumorosamente col cane inseguendolo per le stanze, tanto che mancò poco non facesse cadere il servo col samovàr. A cena poi mangiò molto, disse una quantità di sciocchezze e assicurò che se d'inverno si mangiano dei cetrioli freschi, si sente in bocca un profumo di primavera. 
Andando a letto accesi una candela e spalancai la finestra, ed un senso indefinito s'impadronì della mia anima. Mi ricordai che ero libera, sana, ricca, di famiglia illustre, che ero amata, ma soprattutto, appunto che ero ricca e di famiglia illustre, come era bello questo, mio Dio!...Più tardi, mentre nel letto mi rannicchiavo tutta per il fresco che si insinuava in me dal giardino insieme alla rugiada, cercai di rendermi conto se amavo Pëtr Sergeič o no...e senza esservi riuscita, mi addormentai.
Quando la mattina vidi sul mio letto le chiazze tremolanti del sole e le ombre dei rami del tiglio, risuscitarono vivi nella mia memoria gli avvenimenti del giorno prima. La vita mi parve ricca, varia, colma di bellezza. Canticchiando mi vestii in fretta e corsi nel giardino...E che cosa avvenne dopo? Dopo, nulla. D'inverno, mentre abitavamo in città Pëtr Sergeič di tanto in tanto veniva a trovarci. Le conoscenze fatte in campagna sono incantevoli soltanto in campagna e d'estate, in città invece e d'inverno perdono metà del loro fascino. Quando in città offri loro il tè, sembra che abbiano addosso delle giacche prese in prestito e che troppo a lungo rigirino il cucchiaino nella tazza. Anche in città Pëtr Sergeič mi parlava talvolta del suo amore, ma veniva fuori qualcosa di interamente diverso che in campagna. In città sentivamo più fortemente il muro che era fra noi: io ricca e di famiglia illustre, lui invece povero, neanche nobile, figlio d'un diacono, soltanto facente funzione di giudice istruttore, nient'altro; e tutt'e due noi, io per la mia giovane età, e lui Dio sa perché, credevamo che quel muro fosse molto alto e grosso, ed egli, quando veniva a trovarci in città, sorrideva forzatamente e criticava il mondo aristocratico, o taceva tetro, quando in salotto si trovava un'altra persona. Non c'è muro che non possa essere abbattuto, ma gli eroi del romanzo contemporaneo, per quanto io li conosca, sono troppo timidi, fiacchi, pigri e sospettosi, e troppo rapidamente si rassegnano al pensier di non aver fortuna e di essere stati ingannati dalla loro vita personale; invece di lottare, non fanno altro che criticare e chiamano triviale il mondo, dimenticando che la stessa loro critica a poco a poco finisce col diventare triviale.
Ero amata, la felicità era vicina, sembrava vivesse alle mie costole; e io passavo la vita canticchiando, senza sforzarmi di comprendere, senza sapere che cosa m'aspettavo, che cosa volevo della vita, e intanto il tempo passava passava...Passavano accanto a me uomini con il loro amore, si dileguavano le giornate limpide e le notti tiepide, cantavano gli usignoli, l'aria odorava di fieno, e tutto questo, che è caro, meraviglioso nel ricordo, in me, come in tutti, passava rapidamente senza lasciare tracce, senza essere apprezzato e si dileguava come la nebbia...Dov'è ora tutto questo?
Mio padre morì, io invecchiai, tutto quel che piaceva, blandiva, suscitava una speranza - il rumore della pioggia, il rimbombo del tuono, i pensieri sulla felicità, i discorsi d'amore - tutto questo è diventato un puro ricordo, e ora vedo davanti a me una pianura sconfinata, deserta: e su questa pianura non c'è anima viva, e laggiù all'orizzonte soltanto buio e paura...
Ecco il campanello che squilla...è venuto Pëtr Sergeič. Quando d'inverno vedo gli alberi e mi ricordo come verdeggiano per me d'estate, bisbiglio: "Oh, miei cari!".
E quando vedo delle persone con cui ho trascorso la mia primavera, mi prende un sentimento di tristezza, un senso di tepore, e bisbiglio le stesse parole. Da molto tempo già lo hanno trasferito, grazie alla protezione di mio padre, in città. 
È un poco invecchiato, cammina un po' curvo. Ha smesso da un pezzo di farmi dichiarazioni d'amore, non racconta più sciocchezze, non ama il suo impiego, è sofferente di non so quale male, deluso di qualcosa, non si aspetta più nulla dalla vita, vive senza gioia. Ecco, si è messo a sedere presso il caminetto, fissa silenziosa la fiamma...io, non sapendo che dire, gli ho chiesto: «E allora?». «Niente...» ha risposto. E di nuovo silenzio. Il bagliore rosso del fuoco giuoca sul suo viso triste. Mi sono ricordata del passato, e d'un tratto le mie spalle si sono messe a sussultare, la testa si è inclinata, e sono scoppiata in un pianto amaro. Ho provato una pena intollerabile di me stessa e di quell'uomo, e ho desiderato appassionatamente quello che è passato e che la vita ormai ci rifiuta. E ora non pensavo più al fatto che ero di famiglia illustre e ricca. Singhiozzavo forte, premendomi le tempie, e mormoravo: «Dio mio, Dio mio, la vita è finita». Lui intanto stava seduto, taceva; e non mi ha detto: «Non piangete». Capiva che era necessario piangere e che era venuto il tempo delle lacrime. Vedevo dai suoi occhi che aveva compassione di me; e anch'io di lui, e al tempo stesso m'indispettiva quel fallito, quel timido, che non aveva saputo costruire né la mia vita né la sua. Mentre lo accompagnavo, mi è parso che nell'ingresso indugiasse apposta nell'infilarsi la pelliccia. Due volte mi baciò la mano senza dire una parola, e a lungo mi guardò nel viso lacrimoso. Credo che in quel momento gli tornassero alla memoria il temporale, quelle strisce oblique di pioggia, il nostro riso, il mio viso d'allora. Aveva voglia di dirmi qualcosa, e sarebbe stato lieto di dirmelo, ma non ha detto nulla, ha scosso soltanto il capo e mi ha stretto forte la mano. Che Dio lo protegga!
Dopo averlo accompagnato, sono tornata nel salotto e mi sono di nuovo seduta sul tappeto davanti al caminetto. I carboni ardenti si erano velati di cenere e si spegnevano a poco a poco. Il gelo si è messo a battere ancora più iroso alle finestre, e il vento a cantare  qualcosa nella gola del camino. È entrata la cameriera e, credendo che mi fossi addormentata, mi ha chiamata ad alta voce...

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