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mercoledì 20 maggio 2009

MIRACOLO A MILANO



1951 di: Vittorio De Sica.
"C'era una volta...." il Neorealismo e c'è chi, come me, ancora si stupisce delle perle che portò a galla. A distanza di poche ore ho rivisto due delle più brillanti tra queste perle, Paisà e Miracolo a Milano
appunto, che in realtà trasborda dal Neorealismo vero e proprio, laddove Paisà ne rappresenta invece l'essenza/didascalia. L'uscita del film nel 1951 è contemporanea a quella di Francesco giullare di Dio (presentato a Venezia nel 1950), infatti entrambe le pellicole possono essere considerate come prove generali dell'uscita dal rigoroso neorealismo dei rispettivi autori, ormai giunti all'esaurimento del'ispirazione poetica e storica derivante dal clima che aveva alimentato il neorealismo stesso. Ambedue aprono a suggestioni nuove, contaminando la rappresentazione severa e integrale della realtà con condimenti favolistici e mistici, non tradendo tuttavia il patto con la società e con la storia. I soggetti sono ancora tratti dalla vita, nel caso di Miracolo a Milano (la condizione di senzatetto, orfani ed emarginati) e dalla storia, nel caso di Francesco, che trova già ispirazione per la vocazione didattica che sarà peculiare soprattutto della fase matura di Rossellini. Pur rimanendo nell'orbita del neorealismo, estetica e ideologica, le due pellicole aprono una nuova fase del cinema (e della storia): il tempo della ricostruzione della speranza e della memoria. Oserei dire che esiste un filo ideologico che lega queste due pellicole: la riscoperta e la rivalutazione del misticismo originario del cattolicesimo come valori da riconsiderare dopo le bassezze superomiste, violente, razziste, dei fascismi dei decenni precedenti; tanto Francesco (il quasi eretico) quanto Totò possono essere considerati come riletture della figura di Cristo.
Siamo a Milano, l'anziana signora Lelotta rinviene un neonato, Totò, abbandonato nell'orto di cavoli. Con un salto nel futuro vediamo una parentesi di Totò ragazzino, e della quotidianità vissuta nella casa di Lelotta, l'educazione ricevuta, a suon di favole e minestre. Rimasto orfano per la seconda volta Totò allogia in un orfanotrofio fino alla maggiore età.
Totò è un uomo quando ritorna per la strada, nuovamente orfano, di nuovo solo, ma accompagnato dal consueto ottimismo, da una bonaria fiducia nella vita, che non si arresta di fronte alle immediate difficoltà che incontra: la diffidenza, il cinismo, la povertà. Un uomo riesce a sottrargli la borsa, ma Totò lo segue finendo per patteggiare: la borsa in cambio di un posto letto, di una casa, ma di cartoni. Così inizia l'avventura di Totò fondatore di una nuova città, separata dalla vita reale (o più reale del reale) ed osteggiata dal nuovo acquirente del terreno su cui la città è sorta. Totò gestisce le difficoltà con fantasia e saggezza, e quando necessario ricorre al soprannaturale; Lelotta gli dona una colomba bianca, una lanterna magica capace di esaudire qualsiesi desiderio: così iniziano a materializzarsi i sogni più scontati o più bizzarri di chi no ha mai avuto niente, vestiti da imperatrice, armadi, e vettovaglie da un lato, il tentativo di superare la diversità, cambiare il colore della pelle, o dare vita alla statua simbolo della città.
La povertà viene analizzata con un approccio surreale e grottesco, gli eventi sono gestiti apparentemente al di fuori delle logiche idealistiche o politiche; è l'umanesimo dominante coperto di accenti favolistici e meravigliosi che rende l'impronta di Zavattini molto incisiva sulla struttura generale. Il motivo/ossessione "ci basta una capanna per vivere e dormir" esaurisce ogni possibilità di fraintendimento: non ci sono rivendicazioni, non c'è una reale denuncia nei confronti della povertà, ma c'è un certo compiacimento per la semplicità e l'ingenuità di questo mondo rovesciato in cui l'unico intervento, l'unica salvezza risiede nel sovrannaturale.
Il film non a caso fu proibito in Unione Sovietica e non piacque in Italia, tanto ai conservatori quanto ai comunisti: una bellissima favola che non lascia spazio alla politica, a meno che non la si voglia forzare in una lettura fortemente simbolica; si potrebbe allora riconoscere nel film una visione, un sogno degli autori, che raccogliendo la società orfana di se stessa, la spingono con l'utilizzo di una forza rivoluzionaria, non violenta, a ricostuirsi sulla base di valori ancora oggi incomprensibili all'umana specie.

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