Il libro di Francesca Serra, La morte ci fa belle, di cui ho parlato qui non è destinato ad esaurirsi nella mia mente. Perché ripeto, apre una serie di spunti interessanti per andare a fondo del problema chiacchieratissimo della morte al femminile, degli uomini che ammazzano le donne. Un problema sviscerato nel libro attraverso una schizofrenica catalogazione della donna/sposa/vecchia/puttana cadavere nella storia dell'arte e della letteratura. Un mito fondatore della cultura odierna. Una cultura asfittica e aggrinzita se privata di quello stesso mito, un basamento/catapulta della cultura del maschio.
Il libro offre una galleria di esempi letterari brevissimi, una bottega di anticaglie tra cui è possibile trovare di tutto e di tutte le epoche, un libro che impone una revisione più distesa dei testi citati, un libro che invoglia e entusiasma a riprendere in mano vecchi libri dimenticati, ricordi più o meno coscienti di letture bambine (I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift) cose che non abbiamo letto e che forse non leggeremo mai (Paul e Virginie di Bernardin de Saint-Pierre) cose che assolutamente dobbiamo leggere (Mago sabbiolino di Hoffmann e Lo scarabeo d'oro di Poe) cose curiose (Di diavol vecchia femmina ha natura di Franco Sacchetti) cose che giacciano nel cassetto della nostra formazione e che pensavamo di aver digerito completamente (Decameron di Giovanni Boccaccio). Qui scopriamo che Boccaccio non è l'inventore di storie esemplari del riscatto femminile, ma il regista della più grande delle rappresentazioni ammonitrici per donne capricciose e indisposte ad offrirsi al desiderio maschio.
Ripartiamo da qui. Da Nastaglio degli Onesti.
Amabili donne, come in noi è la pietà commendata, così ancora in noi è dalla divina giustizia rigidamente la crudeltà vendicata; il che acciò che io vi dimostri e materia vi dea di cacciarla del tutto da voi, mi piace di dirvi una novella non men di compassion piena che dilettevole.
In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già assai nobili e ricchi uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, per la morte del padre di lui e d’un suo zio, senza stima rimase ricchissimo. Il quale, sì come de’ giovani avviene, essendo senza moglie, s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre ad amar lui; le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse le piaceva. La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare, che per dolore più volte, dopo molto essersi doluto, gli venne in disidero d’uccidersi. Poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o, se potesse, d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più moltiplicasse il suo amore. Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ’l suo avere parimente fosse per consumare; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare; per ciò che, così faccendo, scemerebbe l’amore e le spese. Di questo consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollicitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo; e fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscì e andossene ad un luogo forse tre miglia fuor di Ravenna, che si chiama Chiassi; e quivi, fatti venir padiglioni e trabacche disse a coloro che accompagnato l’aveano che star si volea e che essi a Ravenna se ne tornassono.