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mercoledì 22 maggio 2013

ACCABADORA O DELL'EUTANASIA

Francisco Goya, Atropo, o il destino, 1819-1823

Una bambina generata due volte, una donna che non può morire.


Accabadora
di Michela Murgia (Cabras, 1972)
Einaudi 2009
 
ACCABADORA
  [dal termine spagnolo Acabar: finire, terminare]
leggendaria figura della cultura sarda sospesa tra mito e realtà, la sacerdotessa della morte era una donna, generalmente anziana, che assolveva il delicato compito di facilitare il trapasso dei malati agonizzanti nelle comunità agro-pastorali. I suoi strumenti erano il cuscino o il su mazzolo. L'accabadora condensa in sè l'immagine cupa del trapasso, quello più truce, quello più sofferto e agonizzante, dei malati terminali; in definitiva, l'immagine dell'eutanasia ante litteram

 
FILLUS DE ANIMA
è così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna, dalla sterilità di un'altra.


La piccola Maria, quarta figlia non desiderata della vedova Anna Teresa Listru, all'età di sei anni viene affidata ad un'anziana signora sola, Tzia Bonnaria Urrai; tra di loro si stabilirà da subito un rapporto speciale, di una madre e di una figlia legate dal sentimento profondo della riconoscenza. Il rapporto si spezza quando Maria scopre l'attività notturna dell'accabadora. Maria abbandona Tzia; si trasferisce a Torino guadagnando un po' di soldi come bambinaia. Ma la strada del ritorno verso casa la attende con la peggiore delle sorprese.


Tzia Bonnaria Urrai è un'accabadora quando deve, ma è soprattutto una sarta, una donna sola, che intravede in Maria la sua possibile compagna di vita, una figlia, un'amica. L'una senza l'altra non sarebbero altro che anime invisibili e solitarie. Insieme possiedono la forza della consapevolezza non comune di capire il senso profondo della vita e della morte perché Maria è una fill'è anima e Tzia Bonnaria è un'accabadora. Sono due solitudini che s'incontrano per scambiarsi un pezzetto di ciò che non conoscono appieno: perché Tzia, avvinghiata nella solitudine di una vita stroncata dalla morte dell'uomo che amava e intrappolata nella figura mortifera di accabadora, è una donna anziana che coglie il senso della vita solo grazie a Maria, la quale sa della morte che è ciò che è successo al padre che non ha mai conosciuto. Maria dovrà fare i conti con quell'immagine sublimata e capirà a sue spese che a volte la morte è la liberazione da un limbo che non è morte, non è vita, ma è supplizio, condanna.

L'incontro degli opposti, la nascita e la morte, nei personaggi di Maria e Tzia ha un sapore atavico rimodulato con un'arguzia pirandelliana che fa di questo romanzo una tragedia estremamente moderna. Perché se è vero che la "gestione" della morte nelle società agro-pastorali ha un carattere materialistico che non può e non vuole perdersi nel sentimentalismo fasullo di una morte ricoperta dal tabù, è anche vero che qui l'accabadora è calata in un contesto novecentesco rappresentato dalla figura "moderna" di Maria, che non può capire il senso profondo delle azioni di sua madre perché la sua cultura glielo impedisce. Michela Murgia è riuscita nell'opera impossibile di parlare di eutanasia con il tatto e il pensiero multiforme del grande scrittore. Il risultato è un romanzo dove ogni singolo personaggio [e ogni lettore] perde lungo il cammino qualche certezza, trovando [maybe] qualche apertura in più al pensiero altrui, qualche libertà in più nella scatola nera del moralismo.
L'eutanasia è una palla di fuoco nel racconto della società contemporanea, una società che in fondo non sa decidersi tra cattolicesimo e materialismo, tra senso pratico e falso moralismo, tra scetticismo e superstizione; ma tutto questo è puro racconto. Perché ogni giorno qualcuno lotta contro la propria non-vita circondato dall'affetto di chi, egoisticamente, vorrebbe non morisse mai. Dove manca Atropo c'è l'accabadora, dove manca l'accabadora ci sono schiere e schiere di inutili verità soggettive sul destino e sulla morte.

[In una notte come questa, una di "quelle notti comuni senza nessun peccato a cui dare la colpa di essere svegli" può capitare che il pensiero si fissi su un'immagine, quella nera e scura dell'Accabadora, nascosta nel suo scialle nero, invisibile come un ragno]

{nel 2005 Mauro Boselli aveva disegnato nel n.59 del mensile “Dampyr” (Sergio Bonelli Editore) il fumetto “Le terminatrici”, con nere accabadore dipinte come streghe vendicatrici che danno la morte}

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