Questo articolo è uscito sul blog della rivista La Mandragola
di Serena Di Sevo
Qui inizio a scrivere e qui potrei
fermarmi. Alla grande aridità di una realtà fatta di niente.
Seguire la praticità bambina del non dire mai oltre il necessario:
sì, no, e piangerne o riderne. Ma la brutalità di questo film
risiede qui, nel suo argomentare oltre il necessario sull'ovvio e
sull'inutile contorcendosi in un monologo interiore con una non-trama
di premeditata vacuità. Potrei fermarmi col dire che questo film è
brutto, che non è niente, ma non direi la verità. La grande
bellezza non è il nulla, non è il niente cinematografico dei
Siani furbetti, degli americani ancora eroi e di una sterminata
cinematografia vigliacca e sempre buona.
L'affresco della crisi dello scrittore
Jep Gambardella è banalmente il racconto del declino di un'epoca che
proverebbe a fare un esperimento di realismo capovolto su una realtà
ricca e sovraccarica di mezzi, di luoghi sicuri costruiti intorno
all'individuo che, al contrario, si de-costruisce e si rifrange. Un
esperimento fallimentare in nuce poiché la superficialità
della realtà è già iperrappresentata, di più, auto-rappresentata
e spettacolarizzata nella musica brutta, nella esternalizzazione
dell'intimo, nella banalità dell'autoritratto ossessivo compulsivo
esposto su facebook, nella ricerca del consenso e dell'approvazione,
e nell'utilizzo di un linguaggio narcisistico privo di sostanza,
ripetuto meccanicamente dall'ascolto e dalla lettura estemporanea.
Fumo negli occhi già visto in Gomorra,
che peccava dello stesso male e della stessa mediocrità che
pretendeva di denunciare con nessun altro mezzo a disposizione se non
la banalità e il qualunquismo del punto di vista, e non otteneva
altro risultato che confermare il suo oggetto come malvagio e
ineluttabile.
Qui il movente non è il male ma il
nulla ideologico, un nulla programmatico che si eleva a forma,
contenuto, progetto, scopo. La grande bellezza rappresenta il
ritorno della “forza prevalente o eccedente dello stile: il
neodecadentismo” di cui parlava Pasolini a proposito de La dolce
vita.
Ogni singolo “nulla” costituisce un
ossimoro, perché esposto come feticcio: le citazioni notturne
dell'Antonioni di La notte, del Céline di Viaggio al
temine della notte, gli sfoghi pittorici di Pollock e il sempre
presente Dostoevskij; il lungo compiacimento sulla performance di
Tony Servillo; l'estenuante estetismo e schizofrenico esercizio di
stile della regia, le interruzioni, i sospiri e le attese di una
grande stagione autoriale del cinema italiano contaminate dallo
sperimentalismo kitsch di tanta video-arte, l'odiosa intro, tra
omaggio e sberleffo della caleidoscopica sfacciataggine dei
video-clip musicali, la disgustosa colonna sonora (il pensiero
“quanto fa schifo la colonna sonora” e ecco che ti appare
Antonello Venditti), le apparizioni mistiche come tentazioni
peccaminose e le tentazioni peccaminose come presenze indifferenti.
L'equivalenza del “Roma o morte” nelle case vuote, nei patetici
trenini delle feste, nei palazzi pieni di macerie di un glorioso
passato, nobili decaduti, funerali, il chiacchiericcio o il silenzio
di una verbosità crudele e autolesionista che prova ad elevarsi
attraverso il girotondo di un'anima dispersa tra il peccato e
l'innocenza, in cui la realtà e le individualità sono apparizioni
di natura puramente estetica che scompaiono senza lasciare traccia.
Jep conquista quando è
personaggio-divo quel tanto maledetto, mai accomodante e
sentimentale, ma dedito alla calma, disimpegnata e sistematica
distruzione dell'intellettualismo impegnato e borghese del sottovoce
e dell'orrore del linguaggio di parole passepartout, dell'irritante
pratica del parlare di sé in terza persona di una performer in cerca
di notorietà che non ha bisogno di leggere perché “vive di
vibrazioni”. Jep stanca quando si guarda sognare e si sorprende a
pensare, annoia quando ammette d'essere annoiato, eccede
nell'eccessiva idiozia di feste affatto divertenti e nei melanconici
flashback di un amore adolescenziale come luogo della perdita
dell'innocenza.